I conti con il passato

Un film georgiano a Venezia, l'urgenza di raccontare la propria storia e una cancellazione a Tbilisi

Paola Peduzzi

Sospesa la proiezione di "The Antique", film sulla deportazione dei georgiani dalla Russia, nel 2006. La regista dice: sono angosciata perché così non si saprà cosa è accaduto al mio popolo. Nel Museo sull'occupazione sovietica a Tbilisi è stata disinstallata la parte sull'invasione di Putin nel 2008. La restaurazione di Stalin e le manipolazioni del governo

C’è un film alla Mostra del cinema di Venezia che racconta un pezzo della storia della Georgia, in particolare la deportazione di cittadini georgiani dalla Russia nel 2006, come rappresaglia per l’arresto da parte del governo di Tbilisi, allora guidato da Mikheil Saakashvili, di quattro spie russe. Il film si intitola “The Antique” (“Antikvariati” in originale) ed è diretto da Rusudan Glurjidze, famosa per “House of Others” – ambientato negli anni Novanta, un altro pezzo (tragico) di storia georgiana – che nel 2016 fu candidato all’Oscar tra i migliori film stranieri. La proiezione di “The Antique” era prevista per il primo giorno del Festival, all’interno delle Giornate degli Autori, ma un giudice di Venezia ha emesso un provvedimento d’urgenza perché ci sarebbe una violazione del copyright e così la proiezione è stata per ora sospesa a tutela della stessa regista, dicono gli organizzatori delle Giornate.

 

Oggi è prevista una conferenza stampa per chiarire che cosa è successo, perché alcuni sospettano che ci sia una ragione politica – cioè di censura russa – dietro alla sospensione della proiezione. Non è detto che sia così e il provvedimento del tribunale non prevede nemmeno che il film non venga proiettato, ma nella lettera che Glurjidze ha scritto ai direttori delle Giornate c’è un elemento ulteriore e più profondo che va al di là di questa sospensione. La regista non denuncia ingerenze, dice: “Sono ancora più angosciata perché in questo modo viene impedito di sapere cosa è accaduto al mio popolo”.

 

Raccontare la propria storia in modo diretto senza le manipolazioni degli altri, e in questo caso di un “altro” che è una forza occupante e prevaricatrice come la Russia, è diventata un’esigenza esistenziale per molti popoli del mondo ex sovietico. Lo abbiamo scoperto con colpevole ritardo in Ucraina, dopo l’invasione di Vladimir Putin due anni e mezzo fa, quando abbiamo scoperto che tutto quel che sapevamo degli ucraini (comunque troppo poco) ci era stato raccontato dai russi. Soltanto quando Mosca ha iniziato a colpire con ferocia i simboli dell’identità ucraina abbiamo cominciato a conoscere e a comprenderla, questa identità: avevamo sempre ascoltato la storia dei colonizzatori.

 

L’urgenza della regista Glurjidze di raccontare cosa è accaduto ai georgiani è figlia della stesso errore dell’occidente. Con un’aggravante: l’attuale governo di Tbilisi, guidato da Sogno georgiano che è al potere da dodici anni, non ha alcun interesse a raccontare che cosa i russi hanno fatto in Georgia e contro la Georgia. Anzi, lo cancella.

  
A Tbilisi, sull’ormai celebre viale Rustaveli che abbiamo visto negli scorsi mesi pieno di manifestanti, di bandiere georgiane, europee e ucraine contro l’introduzione della legge che reprime il dissenso (e che è entrata in vigore) ma che porta le tracce fisiche di tutte le guerre, le repressioni e le resistenze dei georgiani, c’è il Museo nazionale. Al primo piano c’è una sezione dedicata alla memoria dell’occupazione sovietica, dagli anni Venti ai Novanta del secolo scorso, un viaggio nell’orrore in cui ricorrono volti, nomi, tragedie, appelli a un occidente silente. C’erano anche due altre parti che Sogno georgiano ha cancellato. “In realtà, nel 2012, appena arrivato al potere, il ministero della Cultura voleva chiudere del tutto il Museo dell’occupazione sovietica”, dice al Foglio Giorgi Kandelaki, ex parlamentare oggi project manager al Sovlab, il Laboratorio per la ricerca sul passato sovietico, “ma ci furono talmente tante critiche e proteste che alla fine il governo fece un passo indietro”. Ma qualcosa ha comunque rimosso: un poster di Iosif Stalin, che era nato in Georgia e che ha falcidiato i georgiani, perché, come spiega Kandelaki, questo governo vuole ripulire l’immagine di Stalin, ha fatto costruire nuove statue negli ultimi anni, alimentando la propaganda del Cremlino secondo cui l’Unione sovietica era una potenza del bene che proteggeva i suoi cittadini (nei negozi di souvenir a Tbilisi sono in vendita immagini e statuette di Stalin, che vengono comprate soprattutto dai tanti turisti russi, ma soltanto la loro presenza sugli scaffali mostra che l’operazione di restaurazione ha avuto successo: in Europa non vendiamo statuette ricordo di Hitler).

 

“La parte del museo dedicata all’invasione russa del 2008, che ha portato all’occupazione dell’Abcasia e dell’Ossezia del sud, è stata del tutto disinstallata”, dice Kandelaki: “C’era un video in cui erano state raccolte le immagini di quei giorni del 2008”, quando arrivarono i carri armati russi in Georgia, l’occupazione di territori che lo sono tuttora, le bombe, la paura che le forze russe arrivassero a Tbilisi, i duecento morti, le visite solidali dei leader dei paesi baltici e della Polonia. Il video non c’è più, la storia dell’occupazione si ferma a quando è stata sconfitta nel 1990, tutto quel che i russi hanno fatto successivamente per riprendere il controllo della Georgia è stato rimosso dal racconto e quindi dalla memoria. “Ci sono state piccole proteste quando è avvenuta la disinstallazione – dice Kandelaki – ma erano poche e comunque sono state ignorate”.

 

Se oggi vai al museo di Tbilisi e nessuno ti dice che c’era un’altra parte della storia – la più recente, quella che ha ancora grandi effetti sulla realtà georgiana e che è un’occupazione – non ti accorgi di nulla. Ed è così che si spiega l’urgenza della regista georgiana a Venezia e anche di moltissimi altri: se non raccontiamo noi la nostra storia, ne uscirà sempre una versione distorta che tenderà a essere prevalente in occidente. E’ così che poi finisce che noi ci voltiamo dall’altra parte.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi