Piano Mattei a secco
La Libia è fuori controllo e servono alternative al suo petrolio
Pozzi chiusi, il banchiere centrale in fuga. Se continua così servirà trovare altre fonti di greggio, dicono gli esperti. La linea soft degli Stati Uniti e il silenzio del governo italiano
La contesa per il controllo della Banca centrale potrebbe segnare la fine di ogni ambizioso piano di riunificazione della Libia e, ancora peggio, portare al fallimento del suo sistema economico. Ieri il direttore dell’istituto, Sadiq Kabir, ha detto che le milizie dell’ovest che minacciano di ucciderlo lo hanno costretto ad abbandonare il paese. Al suo posto si è insediato da qualche giorno un board imposto dal presidente di Tripoli, Abdelhamid Dabaiba, ma la cui autorità è contestata dal generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, che per ritorsione ha chiuso sei pozzi di petrolio e cinque porti da cui salpano i due terzi delle esportazioni di greggio.
Il risultato è che l’economia è in ostaggio della lotta di potere tra est e ovest. I pagamenti internazionali, ha fatto sapere la Banca centrale, sono ricominciati due giorni fa dopo che per circa una settimana l’istituto si era scollegato dal sistema Swift. I salari per ora sono salvi, ma secondo Jalel Harchaoui, del Royal United Services Institute, si stanno materializzando crisi diverse, tutte altrettanto drammatiche. “Certo, si potrebbe andare verso una nuova guerra civile fra est e ovest. Ma se anche questo rischio dovesse essere scongiurato c’è sempre l’eventualità concreta e tangibile di una crisi economica. A pagarne le spese sarebbero i libici onesti, i lavoratori di ogni categoria”. Finora, l’Europa e gli Stati Uniti hanno avuto un approccio troppo morbido con le parti coinvolte, dice il ricercatore: “Dabaiba approfitta del fatto che gli americani sono distratti dalla campagna elettorale. Washington invece dovrebbe dire chiaramente che quello che sta facendo Dabaiba è inaccettabile, che il nuovo board si è insediato violando la legge e che una politicizzazione della Banca centrale è un disastro”. In ballo ci sono tanti petrodollari che giacciono nei caveau delle banche americane e svizzere. “Il nuovo board vuole gestire il denaro libico, richiamandolo dai depositi all’estero. La gran parte è nei conti di JPMorgan e Bank of New York Mellon. Per riuscirci stanno recuperando le password con metodi illegali. Gli americani avrebbero dovuto dire con più fermezza che questo non è accettabile”. Ieri anche l’Ue si è limitata a un generico appello per evitare il “deterioramento della situazione”.
Intanto però la gran parte dei pozzi di petrolio è ferma e la produzione è passata da 1,2 milioni di barili al giorno di luglio a meno di 600 mila, come ha confermato ieri la National Oil Corporation (Noc), la compagnia petrolifera di stato. Dopo un primo impatto molto forte sui mercati, che qualche giorno fa aveva portato all’aumento del prezzo del greggio di circa il 3 per cento, la contesa per la Banca centrale non ha innescato nuovi aumenti. Ieri il petrolio costava poco più di 79 dollari al barile ed è rimasto a livelli pre crisi. Ma secondo gli esperti di settore, a rischio ci sono un milione di barili, quasi l’intera disponibilità del paese che pure, solo pochi mesi fa, era tornato finalmente a toccare quota 1,2 milioni. L’Opec+, il cartello dei paesi produttori di petrolio guidato da Russia e Arabia Saudita, aveva già annunciato per ottobre un aumento della produzione. Per alcuni osservatori, la decisione di pompare più greggio sarebbe stata rischiosa e avrebbe potuto generare un surplus. Paradossalmente, ora la crisi libica scongiurerebbe questo rischio compensando l’aumento della produzione globale e tenendo i prezzi sostanzialmente invariati. “Premesso che la Libia incide sul mercato globale per appena l’1 per cento, va detto che di qui a ottobre potrebbe accadere di tutto. E per Tripoli la perdita di un milione di barili significherebbe trovarsi in una situazione disperata”, spiega Francesco Sassi, ricercatore di Geopolitica e dei Mercati energetici presso il Rie - Ricerche industriali ed energetiche. “Per prima cosa crollerebbero le finanze del paese, che dipendono quasi in toto dal petrolio. E poi si aprirebbero scenari nuovi, come l’apertura di una Banca centrale parallela nell’est. Sarebbe la fine di ogni possibile sogno di una Libia unita e pacificata”.
Poi ci sono le conseguenze per le compagnie straniere. “Nel caso in cui la crisi dovesse perdurare, queste potrebbero chiedersi se ha davvero senso restare”, spiega ancora Sassi. Eni è attiva con la Mellitah Oil & Gas, la joint venture gestita al 50 per cento insieme alla Noc. La chiusura dei pozzi petroliferi imposta da Haftar ha già bloccato la produzione di due zone di estrazione in cui è coinvolta la compagnia italiana, quella di El Feel a ovest e di Abu Attifel a est. “Eni potrebbe trarne vantaggio occupando i vuoti lasciati dagli altri. Oppure potrebbe essere colpita lei stessa dalla chiusura dei pozzi – dice l’esperto della società di consulenza e ricerca – Al momento si preannunciano conseguenze negative”. La Noc aveva svelato un piano per aumentare la produzione di greggio per circa 40 miliardi di metri cubi in più e per raggiungere quota 2 milioni di barili al giorno. Per Sassi, “la chiusura dei pozzi libici impone la ricerca di fonti di greggio alternative. Non un problema da poco per l’Italia, visto che nel primo trimestre del 2024 la Libia era tornata a essere il nostro primo fornitore”.
Eppure, tutto ciò non sembra preoccupare troppo Roma e finora nessuno del governo italiano ha fatto dichiarazioni sulla crisi più grave degli ultimi anni nel paese nordafricano. “La situazione è fuori controllo – avverte l’esperto – ed è sintomatica dello stato di salute del Piano Mattei, proprio in un paese considerato il grimaldello con cui scardinare l’attuale modello di dipendenza energetica dall’Africa”.
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