Gli stupri, il virus che continua a intossicare l'India

Francesca Marino

Nuove leggi e pene più severe (anche per i silenzi della polizia) non sono servite: aumentano le violenze, spesso brutali. Come quella subita fino alla morte da una dottoressa, per cui il paese da giorni protesta

Calcutta, lo scorso 9 agosto. La sala seminari dell’R.G. Kar Medical College and Hospital, che di sera è vuota e ha un bagno riservato, serve da sala di riposo per medici e infermieri di turno. Una dottoressa tirocinante poco più che trentenne si è buttata a riposare su una panca dopo un turno massacrante di più di ventiquattro ore. La ritroveranno il giorno dopo, morta. Ridotta a un fagotto di sangue e abiti strappati, le pelvi spezzate, le carni straziate. I genitori stenteranno a riconoscerla. L’autopsia conferma che la ragazza è stata vittima di un brutale stupro di gruppo, ma la polizia si limita ad arrestare un volontario dell’ospedale, più o meno a caso. Non sigillano nemmeno la scena del crimine, tanto è inutile. La storia finisce immediatamente su media e social media, e scatena un’ondata di proteste in tutta l’India. 


La mente di tutti corre al caso di una studentessa di 23 anni che nel 2012 a Delhi era stata stuprata da un branco di sei individui all’interno di un autobus in movimento. Nirbhaya, così era stata chiamata la ragazza, era morta tredici giorni dopo a causa delle ferite riportate: la sua morte, e la brutale ferocia dell’aggressione, avevano scatenato un’ondata di rabbia a livello nazionale e proteste di piazza a non finire, costringendo il governo dell’epoca a modificare la leggi indiana relativa ai reati sessuali. La nuova legge, tra le altre cose, ha ampliato la definizione di stupro, lo ha reso un reato perseguibile d’ufficio e per cui non è ammessa la libertà su cauzione, ha aumentato le pene detentive per la maggior parte dei tipi di violenza sessuale e ha previsto la pena di morte nei casi in cui lo stupro abbia causato la morte della vittima o l’abbia lasciata in stato vegetativo o abbia come vittima una bambina. Secondo la legge, inoltre, un agente di polizia che si rifiuta di presentare un Fir (First Information Report) su un caso di stupro rischia la reclusione fino a un anno o una multa o entrambe le cose.


Eppure, la situazione non è migliorata. Secondo la polizia, in India viene denunciato uno stupro ogni venti minuti circa, mentre ogni diciotto minuti viene denunciata una qualche forma di violenza sessuale. Sempre secondo dati rilasciati dalle forze dell’ordine, c’è stato un incremento del centoquaranta per cento circa dei casi di stupro e del cinquecento per cento dei casi di molestie sessuali. Il West Bengal, lo stato in cui si trova Calcutta, è al secondo posto nel numero di stupri denunciati, e al primo nella poco lusinghiera classifica degli stupri non puniti. Nonostante il Chief Minister dello stato sia una donna, Mamata Banerjee: che ha però il vezzo, ogni volta che in città o nello stato avviene uno stupro particolarmente efferato, di incolparne i suoi avversari politici, di coprire i responsabili e, infine, di incolpare la vittima: che, se fosse stata a casa come tutte le brave ragazze, sarebbe ancora viva. 


Era successo, sempre nel 2012, nel caso di Suzette Jordan, attivista dei diritti umani brutalmente stuprata una notte nel centro elegante di Calcutta: Mamata aveva incolpato i suoi avversari politici per aver “montato” il caso e fatto a pezzi moralità e personalità di Suzette. In quest’ultimo caso l’ineffabile signora, dopo aver trasferito in fretta e furia i vertici dell’ospedale e aver passato in tutta calma il caso, dopo giorni in cui la polizia cittadina inquinava le prove, agli investigatori del Central Bureau of Investigation, si è messa in marcia alla testa di uno scelto gruppo di persone per protestare contro il suo stesso governo. E contro sé stessa, visto che detiene anche i portafogli di ministro della Salute e degli Interni dello stato. Giorni prima, in piazza erano scese, a Calcutta e in tutta l’India, migliaia di donne, ragazze e bambine al grido di “Riprendiamoci la notte”: contro i manifestanti era stata schierata la polizia, e la Banerjee ha fatto arrestare centinaia di persone colpevoli di aver diffuso sui social i dettagli del delitto facendo in modo che trasparisse l’identità della vittima.


“Abbiamo fatto marce e fiaccolate, campagne contro lo stupro e lo sfruttamento delle donne. Le leggi sono state rafforzate e rese più dure ma, a quanto pare, non è servito a niente. Non è servito a niente perché siamo ancora qui a guardarci incredule davanti all’ennesimo orrore, che è sempre un po’ peggiore di quello precedente” commenta Urmi Basu, fondatrice e direttore esecutivo dell’Ong “New Light” di Calcutta. Attivisti e sociologi sono difatti concordi nel ritenere che non basta discutere di pene e misure di sicurezza, ma c’è bisogno di compiere un lavoro quotidiano e certosino nelle scuole e nelle famiglie. “Bisogna cambiare la mentalità corrente, la mentalità di una società schizofrenica che venera la Dea come forza creativa e che ‘onora’ le proprie donne negando loro libertà e diritti. Una società che produce premier, scienziati, capitani d’industria, giudici di Corte suprema e presidenti della Repubblica donna ma che non riesce a ancora fare i conti con la parità di diritti e di trattamento per ragazzi e ragazze”. 

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