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Tel Aviv si tinge di giallo: riportare a casa gli ostaggi è sempre più urgente

Fiammetta Martegani

L'appello disperato di Gil Dickmann, cugino di Carmel Gat, uccisa da Hamas: "È giunto il momento di firmare un accordo definitivo". Le famiglie non si arrendono e l'80 per cento degli israeliani chiede un accordo per porre fine all'incubo

“Am Israel Chai significa, nella sua traduzione, che il popolo di Israele crede nella vita. Per questo il nostro unico obiettivo, non solo come famigliari dei rapiti, ma come israeliani, è quello di riportare a casa tutti gli ostaggi. Vivi.” Sono queste le parole di Gil Dickmann, cugino di Carmel Gat, rapita da casa sua, nel kibbutz Be’eri, dove ha visto sua madre essere uccisa da Hamas davanti ai suoi occhi, così come molti altri membri della sua famiglia, che sono stati rapiti o uccisi.

“Da allora – continua Dickmann – come famigliari, non abbiamo mai smesso di far sentire la nostra voce, per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale mentre la Croce Rossa, in undici mesi, non è mai andata a visitare un ostaggio, anche quando si trovava prigioniero a casa di civili”.

Carmel, invece, si trovava in un tunnel. Ma era riuscita a sopravvivere e, fino all’ultimo, aveva insegnato yoga e meditazione agli altri ostaggi, per non far perdere loro la speranza. Fino a quando, la scorsa settimana, lei e altri cinque prigionieri sono stati freddati da Hamas. Due ragazze e quattro ragazzi: Carmel Gat, 39; Eden Yerushalmi, 24 anni; Almog Sarusi, 26; Alex Lubnov, 32; Ori Danino, 25; Hersh Goldberg, 23. Sua madre, Rachel Goldberg, in questi mesi era diventata il simbolo internazionale delle famiglie dei rapiti, viaggiando in tutto il mondo e incontrando personalmente sia il presidente americano Biden che il Pontefice, per far sentire la propria voce e quella degli ostaggi, ancora nei tunnel di Gaza.

L’attività del Forum delle famiglie dei rapiti va avanti, senza sosta, dal 7 ottobre. Il loro headquarter si trova in quella che è stata ribattezzata “Piazza degli Ostaggi”, il piazzale tra la Kirya – il ministero della Difesa – e il Museo di Arte di Tel Aviv, che li ospita da allora.

Domenica in questa piazza è stata allestita, in occasione di Sukot – la Festa delle Capanne – una capanna lunga quanto un tavolo con 101 sedie. Quanto i rapiti. Per ricordare che ormai, a distanza di quasi un anno da quel Sabato Nero, Sukot è alle porte, e non c’è più tempo da perdere: “Non solo per riportare a casa chi è stato rapito ma perché, gli israeliani tutti, possano tornare nelle proprie case” continua Dickmann, facendo riferimento ai 170.000 sfollati, tra sud e nord del paese, a causa dei continui attacchi missilistici da parte di Hamas ed Hezbollah.

Israele è sempre più affaticata, incluso l’esercito. Dickmann ricorda come, persino dopo la liberazione dei quattro prigionieri lo scorso 9 giugno, Noa Argamani, icona della resilienza degli ostaggi, si fosse rivolta personalmente al premier Benjamin Netanyahu sostenendo la necessità di raggiungere un accordo immediato con Hamas, per evitare di mettere ulteriormente in pericolo la vita di altri ostaggi e di altri soldati come Arnon Zmora, che quel giorno ha perso la vita per liberarla.

Tra gli israeliani, sono sempre di più a pensare come loro: “È giunto il momento di firmare un accordo definitivo, anche a costo di rinunciare al Corridoio Philadelphia. Non lo chiedono solo le famiglie degli ostaggi ma, stando ai sondaggi, l’80 per cento degli israeliani. Distruggere Hamas è cruciale, ma non lo si può fare mentre chi è stato rapito è ancora lì. Anche i soldati sono sopraffatti e stanchi di perdere la propria vita per cercare di salvare gli ostaggi che invece, per Hamas, sono diventati solo scudi umani. Io ormai, tecnicamente, non faccio nemmeno più parte delle famiglie degli ostaggi perché Carmel è morta, ma non smetterò di combattere questa battaglia, perché tutte le famiglie che hanno perso qualcuno hanno la terribile sensazione di non aver fatto abbastanza per portare a casa i propri cari. Per cui non smetteremo di scendere in piazza, fino a quando non torneranno tutti a casa. Vedere 700.000 persone in Kaplan Street mi ha riempito il cuore, ma non possiamo aspettare un minuto di più.”

Così domenica sera Tel Aviv si è tinta di giallo e, accanto alle bandiere bianche e blu ormai, in tutto il paese, spiccano ovunque fiocchi e stendardi gialli, per ribadire l’urgenza di riportare a casa, immediatamente, tutti gli ostaggi: “Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno – ha concluso Dickmann – Non possiamo più salvare la vita di mia cugina e dei cinque ostaggi che erano assieme a lei. Ma possiamo, e dobbiamo, portare a casa chi è ancora vivo”.

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