medio oriente

La giornata del lutto e della rabbia di Israele

Micol Flammini

Ai funerali di Hersh Goldberg-Polin si è il visto il rito di un paese stravolto che non può più tornare indietro. Le parole del premier Netanyahu, le critiche di Biden e i video della propaganda di Hamas

Il numero dei giorni trascorsi dal 7 ottobre, i genitori di Hersh Goldberg-Polin lo hanno ancora incollato alla maglietta. Un pezzo di scotch di carta, su cui ogni giorno, dall’inizio della prigionia del figlio, hanno scritto con il pennarello nero i numeri che crescevano, si facevano mesi, si sono fatti mezzo anno e continuano ancora. Fino a ieri, quelle cifre al petto potevano sembrare il conto della loro separazione da Hersh, da quando i terroristi di Hamas erano arrivati a prenderlo, a caricarlo su un pick up per nasconderlo in un tunnel nella Striscia di Gaza. Invece ieri è parso chiaro che non c’è nulla di personale in quelle cifre in crescita, che quei numeri rimarranno lì sui vestiti di Rachel e Jon Goldberg-Polin ancora e ancora perché sono il conto di Israele in attesa, sono il conto delle sevizie di tutti gli ostaggi costretti nella prigionia di Hamas. Sono le cifre di una separazione di un paese ormai cambiato per sempre, che si volta, che ripensa a com’era trecentotrentatré giorni fa e  sa di non poter tornare indietro. Ieri il funerale di Hersh Goldberg-Polin è stato il funerale di una nazione, di un paese che ha salutato se stesso, il suo passato e non ha fatto pace con l’idea di essere cambiato per sempre. 


Hersh è stato ucciso da Hamas assieme ad altri cinque ostaggi, Carmel Gat, Eden Yerushalmi, Ori Danino, Almog Sarusi, Alex Lobanov. I terroristi gli hanno sparato un colpo alla testa e altri sul corpo: un’esecuzione prima che i soldati li raggiungessero. Tsahal era riuscito a liberare un ostaggio martedì scorso, le operazioni nella città di Rafah si sono intensificate, i soldati israeliani probabilmente avevano avuto informazioni sugli altri tenuti in prigionia nella stessa zona, nella rete di tunnel di Rafah, e prima che potessero arrivare, Hamas ha ucciso Hersh, Carmel, Eden, Ori, Almog e Alex. Ai terroristi non è bastato averli presi in ostaggio, picchiati, portati da un tunnel all’altro non lontano da zone abitate dai civili. Non è bastato neppure averli uccisi, Hamas ha voluto anche pubblicare un video di tutti e sei durante la prigionia, cercando di utilizzare la sofferenza per fomentare le manifestazioni, le divisioni, le ansie di un paese in protesta. Gli ostaggi uccisi avevano tutti meno di quarant’anni, dopo il 7 ottobre si erano fatti carta, erano diventati un’immagine, un richiamo, una protesta. Le loro foto sono per le strade delle città israeliane, sono sui cartelli di chi va a manifestare e ci rimarranno ancora, anche se ormai non sono più ostaggi, perché la loro esecuzione ha smosso qualcosa di più profondo del solito in un paese che protesta senza sosta. La loro morte ha portato all’esasperazione una parte cospicua della popolazione ferma nel principio che è anche fondativo dello stato di Israele: secondo l’insegnamento della Mishnah, salvare una vita vuol dire salvare il mondo intero. La responsabilità è chiara: è di Hamas, nessuno tra i manifestanti pensa il contrario. I terroristi hanno detto che l’insistenza del premier Benjamin Netanyahu sulla presenza israeliana nei corridoi di Netzarim (tra il nord e il sud della Striscia) e Filadelfi (al confine tra la Striscia e l’Egitto) mette a rischio gli ostaggi. Ma l’esecuzione non è stata una conseguenza dell’insistenza di Netanyahu per la presenza israeliana lungo i corridoi, e se gli israeliani scendono in strada contro il primo ministro è perché ritengono che non faccia tutto il possibile per riportare a casa chi è stato rapito, perde tempo. 


Ieri Israele si è bloccato, hanno protestato tutte le categorie, l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è rimasto chiuso per alcune ore, il paese era in lutto, un lutto universale, per Hersh, Carmel e tutti gli altri. Un lutto rabbioso contro il primo ministro che soltanto ieri sera ha accettato di parlare alla nazione. Netanyahu si è presentato in conferenza stampa con una mappa della Striscia, ha spiegato perché il corridoio Filadelfi è così importante, ci teneva a sottolineare come non fosse una sua ossessione politica, ma un’esigenza di sicurezza per lo stato ebraico: “Se ci ritiriamo dal confine con l’Egitto, Hamas invierebbe gli ostaggi in Iran”, ha detto. Dopo molti mesi, ha accettato di rispondere alle domande dei giornalisti, si è scusato senza troppo trasporto con le famiglie degli ostaggi, ha promesso che Hamas pagherà un prezzo molto alto: per gli israeliani è lontano, lontanissimo dal loro dolore. Il presidente americano Joe Biden ha detto che Netanyahu non sta facendo abbastanza per avere un accordo, lo ha detto ad alta voce, mettendo ben in chiaro che la responsabilità della morte dei sei ostaggi è soltanto di Hamas. Poi si è chiuso in una riunione con i vertici della sicurezza e la vicepresidente Kamala Harris per cercare ancora una via per arrivare a un’intesa, per proseguire i negoziati che vanno avanti con movimenti impercettibili tenuti lontani dai riflettori. 


Al funerale di Hersh si parlava in ebraico e in inglese, è stato un rito collettivo che serviva a mostrare il dramma di una nazione. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha chiesto scusa al ragazzo nel nome del paese. La madre Rachel anche ha chiesto scusa al figlio per non averlo riportato a casa: “Finalmente, finalmente, finalmente – ha ripetuto gridando, con la voce strozzata – adesso sei libero”.
 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)