Riportiamoli a casa
Se non li salviamo, non ci riprenderemo. La testimonianza di Rachel, madre di uno degli ostaggi
Le parole di Rachel Goldberg-Polin, mamma d Hersh, uno degli ostaggi trovati morti nei tunnel di Gaza nel fine settimana, al sito Free Press: "Il nostro sistema ha fallito. I fallimenti succedono, ma abbiamo il tempo e la possibilità di espiare le nostre colpe"
Giovedì 29 agosto, Rachel Goldberg-Polin, madre di Hersh, uno degli ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre, è andata al confine con Gaza, assieme ad altri familiari che non vedono i loro parenti da quel giorno, a parlare con suo figlio. Ha gridato “Hersh” due volte, fortissimo, e poi gli ha detto quel che già in altre occasioni gli aveva urlato: sii forte, noi siamo qui, non sei solo, tornerai a casa. Hersh è tra i corpi trovati dall’esercito israeliano in un tunnel nel fine settimana: come gli altri cinque ostaggi che erano con lui, è stato ucciso con un colpo alla testa poche ore prima che arrivassero i suoi liberatori. Quando sua madre gli urlava il suo amore, era ancora vivo. Rachel ha portato la battaglia per la liberazione degli ostaggi in giro per il mondo, si è rimpicciolita in questi undici mesi, ha il viso scavato dal dolore, ma non ha mai smesso di parlare a suo figlio e di parlare al mondo: riportateli a casa. È stata alla convention del Partito democratico americano a Chicago, piccolina di fianco a suo marito, distrutti in mezzo a un evento festoso: è stata anche una delle rare occasioni in cui Rachel si è accasciata sul leggio per un attimo, gli occhi lucidi e la voce increspata. Si sono commossi tutti.
A gennaio, Rachel aveva parlato con Bari Weiss, fondatrice del sito Free Press, e le sue parole meritano di essere lette, perché sono sempre state ferme, decise, dignitose e, nella disperazione assoluta, equilibrate. “Fin dall’inizio è stato chiaro che ridurre la capacità militare di Hamas per impedirgli di replicare di nuovo il 7 ottobre ha molto senso e deve essere un obiettivo. Abbiamo visto questo tentativo 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per molte, molte, molte, molte, molte, molte settimane. Stiamo impiegando tutte le forze che abbiamo per cercare di raggiungere quell’obiettivo, e i governi hanno un obbligo nei confronti dei propri cittadini, li devono proteggere e tenere al sicuro. Il patto che un governo stipula con te, qualunque sia questo tuo governo, implica la protezione di tutti i civili. Ecco, in questo il nostro sistema ha fallito. I fallimenti succedono, ma abbiamo il tempo e la possibilità di espiare le nostre colpe, di risolvere questo fallimento e di pentirci. Dobbiamo farlo riportando a casa queste 136 persone (ora sono 97, ndr).
Facendo io parte della famiglia di un ostaggio, ho sentito, abbiamo sentito, che l’energia esercitata sulla negoziazione per riavere indietro quegli esseri umani non c’è stata 24 ore su 24, 7 giorni su 7 come l’altra missione. Non ci riprenderemo mai se non riportiamo indietro questi ostaggi, queste persone. Se diciamo che diamo valore alla vita, allora dobbiamo dare valore alla vita di queste persone che hanno pagato un prezzo così alto per 112 giorni (ora ne sono trascorsi 333), ed è molto difficile anche soltanto immaginare cosa stiano passando gli ostaggi. E francamente, è davvero difficile immaginare cosa stiano passando migliaia e migliaia e migliaia di civili di Gaza. È interessante che alcuni spesso mi dicano che non riescono a immaginare cosa sto passando. Rispondo sempre che nemmeno io riesco a immaginarlo. Mi sveglio sempre di soprassalto e ho sempre il momento in cui realizzo: o no, è un altro giorno e lui non è ancora a casa. E sai, c’è una preghiera tradizionale che pronunciano alcuni ebrei al risveglio, ringraziano Dio per averti restituito l’anima e per avere un altro giorno davanti. E io mi dico: che sia oggi il giorno. E poi prima di alzarmi dal letto, mi dico: sii un essere umano.
Penso che tutti noi, tutte le famiglie degli ostaggi, stiamo elaborando e attraversando tutto questo incessantemente. Trascorriamo momenti uguali in modi diversi, il che significa che non è l’incubo di una notte, è un incubo di ogni secondo. Il mio ebraismo in questi giorni ha giocato un ruolo enorme. Sono in una relazione con questa idea di Dio. È come qualsiasi relazione. A volte in una relazione ti chiedi, cosa stai facendo? Cosa stai pensando? Cosa stai combinando? Non capisco. Spiegamelo. E così quando prego al mattino e ci sono certe frasi della preghiera in cui mi fermo e continuo a ripetere più e più volte una frase che dice tipo: salva e redimi, salvi e redimi, salvi e redimi, e le mie figlie – ho due figlie più piccole. Hersh è il più grande e il mio unico figlio maschio – mi imitano un po’ ripetendo: podeh matsil, podeh matsil, podeh matsil. Io ho lo sguardo in alto e scuoto le mani e dico: è ora di farsi vedere, andare a salvare e redimere. Dove sei? So che sei lì. Quindi cosa sta succedendo? E io semplicemente prego e spero di avere il privilegio di dare un senso a questo periodo in cui il mio mondo è completamente capovolto.
Il gruppo degli ostaggi non è omogeneo. Sono persone che rappresentano quasi 20 nazioni diverse. Ci sono cristiani, ebrei, musulmani, indù e buddisti ancora in ostaggio. Sappiamo che il bambino più piccolo ha un anno. La persona più anziana ha 85 anni. Sai, ogni singola persona che è un ostaggio è un intero universo per la sua famiglia. Quindi abbiamo 136 universi che aspettano che andiamo a prenderli. E penso che non possiamo essere in grado di guardarci allo specchio come esseri umani se falliamo. Non penso davvero che ci riprenderemo”.
L'editoriale dell'elefantino