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I successi della propaganda di Hamas

Micol Flammini

Il portavoce senza volto del gruppo della Striscia detta le regole dei ricatti allo stato ebraico con video degli ostaggi e comunicati. La pressione funziona anche sugli israeliani mentre gli Stati Uniti dicono che sul corridoio Filadelfi l'intesa è vicina. Il tempo, le paure e i cedimenti 

Abu Obaida è il portavoce delle brigate  Qassam di Hamas. Il suo volto non si conosce, è sempre avvolto da una kefiah, si intravedono gli occhi. Rilascia sempre i suoi messaggi con il dito indice alzato, in segno di solennità. Di solito i portavoce sono ben riconoscibili, mettono la loro faccia sulle parole dell’organizzazione o del partito che rappresentano. Abu Obaida non l’ha mai messa, da quando è stato formato il gruppo e lui alzava il dito per minacciare e raccontare la versione dei fatti di Hamas in ogni guerra. Come molti dei portavoce delle varie organizzazioni terroristiche, Abu Obaida non si mostra, si presenta con un nome di battaglia – il suo vero nome si suppone sia Hodayfa Samir Abdallah al Kahlout. Il gruppo della Striscia però sa di avere un potere comunicativo diverso rispetto agli altri terroristi, sa di essere ascoltato ovunque, sa che la sua propaganda viene presa per buona, per verità.  E se dello Stato islamico nessuno accetterebbe come veritiere le affermazioni, Hamas viene creduto e arriva persino  a giocare con la mente della società israeliana. Abu Obaida ieri ha lanciato due messaggi. Nel primo comunicava che a chi si occupa di sorvegliare gli ostaggi sono state impartite nuove istruzioni. “Queste istruzioni delineano come gestire la situazione se l’esercito di occupazione si avvicina al luogo in cui sono tenuti i prigionieri”. Obaida spiega che la decisione è stata presa dopo “l’incidente di Nuseirat”: da Nuseirat, l’8 giugno, Tsahal ha portato in salvo quattro ostaggi israeliani (Noa Argamani, Shlomi Zivi, Almog Meir Jan e Andrei Kozlov), tenuti prigionieri in due case di civili. Abu Obeida comunica che è stata stabilita una nuova regola: se i soldati di Israele si avvicinano, gli ostaggi vanno uccisi. Hamas, dopo aver detto che Hersh Goldberg Polin, Carmel Gat, Eden Yerushalmi, Ori Danino, Almog Sarusi e Alex Lobanov erano morti a causa di un bombardamento israeliano e poi a causa dei proiettili di Tsahal, ha ammesso che i sei ostaggi, i cui cadaveri sono stati trovati sabato dai soldati israeliani, sono stati uccisi da chi li teneva prigionieri proprio perché i soldati si stavano avvicinando e avevano identificato il luogo di prigionia. Dopo aver comunicato la nuova regola – uccidete gli ostaggi se Tsahal cerca di salvarli Hamas ha pubblicato l’ultimo video di Eden Yerushalmi che la mostra in vita, la ragazza di ventiquattro anni  il 7 ottobre lavorava come barista al Nova Festival di Re’im. Il gruppo della Striscia ha ore di girato con gli ostaggi messi davanti alla telecamera. Tutti sono stati costretti ad accusare il governo, ad arrabbiarsi per la loro mancata liberazione e perché il premier Benjamin Netanyahu non accetta un accordo ora, subito, “akhshav”. Eden, a un certo punto, durante il video, alza lo sguardo, sembra guardare qualcuno vicino a lei che controlla vengano pronunciate tutte le accuse, venga raccontato dei bombardamenti, delle condizioni in cui sono lasciati gli ostaggi. Eden, come gli altri prima di lei, chiama gli israeliani alla protesta, dice di andare per strada contro il governo, contro Netanyahu che ha accettato di scambiare Gilad Shalit per mille terroristi e ora non vuole liberare i detenuti palestinesi per gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Eden tocca dove fa male, le parole sono scelte con attenzione: durante lo scambio Shalit, Netanyahu accettò di liberare anche Yahya Sinwar, oggi il leader assoluto di Hamas, e altri protagonisti dell’attacco ai kibbutz del sud di Israele. Sinwar sa dove colpire, partecipa alle regole di questi video di propaganda, conosce bene la società israeliana, sa dove insistere, sa quali parole usare: “akhshav”, che vuol dire “ora” in ebraico, è il grido di protesta di chi chiede un accordo e nei video girati da  Hamas, gli ostaggi lo ripetono continuamente.   


Dopo il primo comunicato e il video di Eden, Abu Obaida nel pomeriggio ha diffuso un altro messaggio: “Affermiamo che il prezzo che accetteremo in cambio di cinque o dieci prigionieri vivi è lo stesso prezzo che avremmo chiesto in cambio di tutti i prigionieri se i bombardamenti nemici non li avessero uccisi”. Hamas controlla cosa succede nelle strade di Israele, ieri i cittadini si sono uniti ancora una volta alle famiglie degli ostaggi per chiedere un accordo. Dopo il comunicato di Abu Obaida, Hamas ha pubblicato il video di un altro dei sei ostaggi trovati morti: Ori Danino. Il ragazzo appare spaventato, tremante, ha gli occhi rossi. Racconta che le sue condizioni e quelle degli altri ostaggi sono pessime. Dice che le bombe di Israele li stanno uccidendo. Ori è stato ucciso dai proiettili di Hamas, uno alla testa, altri sul corpo, dopo dieci mesi di prigionia quarantotto ore prima che i soldati israeliani riuscissero a raggiungere il tunnel in cui era tenuto nascosto. Il video si chiude con un altro slogan delle proteste: “Time is running out” (Il tempo sta finendo). Le strade di Tel Aviv sono piene di clessidre, il tempo che passa, gli orologi sono ormai il conto delle ore di vita e di morte degli ostaggi. Ieri, dopo i due video e le proteste dei cittadini, gli Stati Uniti hanno detto che Israele è disposto a ritirare le truppe dal corridoio Filadelfi, al confine meridionale della Striscia. 


Le ultime operazioni di Tsahal dentro la Striscia lasciano intendere che le informazioni di intelligence che Israele possiede sono accurate: probabilmente i servizi di sicurezza sono riusciti a localizzare molti degli ostaggi. Hamas lo sa. La capacità di combattimento del gruppo è ai minimi, gli restano gli ostaggi per ottenere un accordo favorevole da Israele e con gli ultimi annunci oltre a fare pressione sugli israeliani con immagini che hanno un forte impatto emotivo, vuole legare le mani di Tsahal: sa dove sono gli ostaggi, recuperarli adesso è un rischio ancora più grande. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)