(foto EPA)

L'editoriale dell'elefantino

Israele e il mistero di un paese diviso su Hamas da una linea tracciata con il suo stesso sangue

Giuliano Ferrara

Che i messaggi del terrorismo possano far breccia nell'opinione occidentale è comprensibile. Ma che quegli stessi messaggi possano penetrare in parte dell’opinione pubblica israeliana e della diaspora è un altro conto

Che Hamas possa penetrare con i suoi inganni bestiali nell’opinione occidentale e indurre pezzi di una generazione politica a sventolare la sua bandiera nichilista è comprensibile. Scambiare Sinwar come testimone di una resistenza e profeta dei poveri del mondo è in sintonia con quella particolare forma di autolesionismo ideologico a costi contenuti che è la cultura woke, con lo scambiare l’autodifesa per un’ingiustizia e un pogrom per un atto di ribellione. Ma che i messaggi assassini di Hamas, scritti con il sangue degli ostaggi trucidati, possano penetrare in parte dell’opinione pubblica israeliana e della diaspora è un altro conto. Molti in Israele e fuori, anche tra le comunità ebraiche, hanno incorporato nella coscienza personale e di gruppo un senso di colpa devastante, e il senso di colpa non perdona, rende aggressivi, rende ciechi. Non si tratta ovviamente delle famiglie degli ostaggi ancora prigionieri, che vogliono solo la loro librazione a ogni costo. E chi siamo noi per giudicarli? Come reagiremmo in una situazione analoga?

 

Si tratta di un’opinione formata, politica, civile, che non riesce più a rivolgere verso Hamas lo sguardo del disprezzo e l’attitudine del combattimento, si lascia invece usare da Hamas, asseconda indirettamente la sua strategia propagandistica esplicita, sciopera, manifesta, divide il paese scegliendosi per obiettivo chi dirige la guerra contro Hamas, attribuendo a loro la responsabilità di quanto esplicitamente ha perseguito Sinwar dal 7 ottobre in avanti, dopo una lunga fase di radicamento nell’odio antiebraico e nel fanatismo islamista: uccidere e martoriare ebrei, sequestrarli e imprigionarli come materia di riscatto, ucciderli in cattività e attribuire al governo di Gerusalemme la responsabilità della loro morte, sacrificare quanti più palestinesi possibile tenendoli come scudi umani tra i suoi bunker e il nemico che si difende con una guerra necessaria, scatenare un’ondata di antisemitismo nel mondo occidentale, scavare un solco tra Israele e i suoi alleati, tutto per ottenere la resa di Tsahal e l’umiliazione di Israele, piegata e paralizzata dopo un anno di guerra. Qualunque cosa pensino i manifestanti di Tel Aviv e di Gerusalemme di Netanyahu, normale fatto democratico in linea di principio, come può accadere che bevano la versione che ne fornisce Hamas, di un leader sanguinario, egotista, intento a salvare sé stesso con la pressione militare e il boicottaggio del negoziato per il cessate il fuoco e l’abbandono delle posizioni difensive conquistate a danno del nemico? Qui non è in questione il potere della Corte suprema di Israele di rovesciare decisioni della maggioranza del Parlamento e del governo che la esprime, questione alla fine entro certi limiti opinabile in base alla divisione dei poteri, qui è in questione l’identità profonda di un paese in guerra esistenziale, la sua unità psicologica ed etica, il suo stesso statuto di comunità solidale. Si può pensare che tutto questo derivi dalla natura della democrazia israeliana. Che non è solo unica nel medio oriente, è unica al mondo. Nasce da un intreccio di culture, di sensibilità secolari e religiose, di letture bibliche e talmudiche, di opinioni forti, incrollabili, che vivono in un clima di tesissima e asperrima conflittualità. 

 

Nelle democrazie occidentali qualcosa alla fine si aggiusta, anche nelle situazioni-limite, anche nelle esperienze quasi deliranti alle quali ci stiamo abituando, nessun paese democratico è per statuto, per storia, per geografia e per cultura personalmente vissuta in guerra permanente per la propria sopravvivenza, non è in discussione la casa di chi lo abita, la sicurezza di vita tua e dei tuoi familiari e dei tuoi amici, non si vive circondati da un odio assassino e annientatore che oggi si dispiega su sette fronti politico-militari armati fino ai denti e fanatizzati nel profondo dell’anima, non ci si misura con l’incubo del male che gli altri ti fanno e al quale tu devi rispondere pena la tua scomparsa dal fiume al mare. Questo tratto distintivo della democrazia nazionale israeliana spiega come in guerra ci si arrivi a dividere lungo una linea suggerita, fissata, perseguita, organizzata da un nemico che te la comunica con il pennello intinto nel tuo stesso sangue. Una democrazia fortissima, si spera invincibile, ma da incubo.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.