Tra alleati

Tutto quel che ha fatto l'Ucraina per levare all'occidente la paura di vincere contro Putin

Paola Peduzzi

Fateci colpire le postazioni russe da cui partono le bombe che ci ammazzano, chiedono gli ucraini agli alleati occidentali: “Let Ukraine strike back” è l’urlo che si alza ormai da mesi, mentre cresce l’orrore di uomini, donne e bambini uccisi negli attacchi indiscriminati della Russia. Kyiv non sa più cosa fare per convincere gli alleati che possono fidarsi

Fateci colpire le postazioni russe da cui partono le bombe che ci ammazzano, chiedono indefessi gli ucraini agli alleati occidentali: “Let Ukraine strike back” è l’urlo che si alza ormai da mesi, mentre cresce l’orrore di uomini, donne e bambini uccisi negli attacchi indiscriminati della Russia di Vladimir Putin – ogni giorno un  record di morti o di bersagli che si pensavano remoti, come i palazzi di Leopoli ieri, un’aggressione mortale e senza sosta. L’occidente risponde con cautele varie, seguendo i suoi processi decisionali e i suoi calcoli che hanno tempi, e forse anche obiettivi, diversi da quelli ucraini. Il ministro degli Esteri dimissionario Dmytro Kuleba ha detto: “Il semplice atto di salvare vite umane non può essere considerato un’escalation”.

Non può essere ma lo è e l’Ucraina non sa più che cosa fare per convincere i suoi alleati che si possono fidare di Kyiv. Un anno fa, di questi tempi, iniziava la fase della “fatica”, non quella degli ucraini, che come si sa non possono permettersi il lusso di essere stanchi, ma degli alleati, che ha portato a: un ritardo enorme dei rifornimenti militari americani, bloccati da settembre del 2023 a marzo del 2024 dal Partito repubblicano a trazione trumpiana; vari intoppi nei fondi europei in arrivo all’Ucraina, in particolare a causa dell’ostilità dell’Ungheria (che ha ottenuto così dall’Unione europea di poter continuare a rifornirsi delle risorse russe e dalla Nato di non partecipare a nessun’attività volta a difendere l’Ucraina), e a un ritardo di consegne militari dovuto a debolezze strutturali nella produzione che ancora devono essere aggiustate; la nascita di un “partito transnazionale della pace” che è guidato dal trumpismo e che trova alleati in Europa, tra gli estremisti di destra e di sinistra, e in varie parti del mondo, tra i cosiddetti “neutrali”.

Nel frattempo l’Ucraina, oltre a ricostruire tutto quel che viene distrutto dai russi ogni giorno e a educarsi a vivere  sotto attacco permanente, ha: investito in alta tecnologia per costruirsi una propria flotta di droni (e testare un missile balistico) che non dipende dalle forniture e dalle regole d’utilizzo imposte dagli alleati e che ha permesso di trasformare il modo in cui ci si difende dall’aggressione russa (che si avvale di alleanze molto meno schizzinose della nostra, tant’è che l’Iran potrebbe consegnare a breve anche missili balistici); organizzato un’incursione dentro il territorio russo, nella regione di Kursk, senza annunci e senza indiscrezioni, che ha portato le Forze ucraine a conquistare più territorio russo di quello che i russi hanno conquistato in Ucraina da aprile scorso (con la differenza che gli ucraini non hanno intenzione di occupare e colonizzare un’area che non fa parte del loro paese); preparato “un piano per la vittoria” che sarà presentato a fine mese, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che è anche alla base del rimpasto in corso in queste ore a Kyiv, perché come ha detto il presidente Volodymyr Zelensky, “l’autunno sarà estremamente importante per l’Ucraina, le nostre istituzioni devono essere strutturate in modo da ottenere i risultati di cui abbiamo bisogno”. Gli alleati si trasformano e Kyiv si adatta, coniugando resistenza e flessibilità, per dimostrare di essere all’altezza del compito che si è ritrovata addosso: difenderci tutti dall’espansionismo militare della Russia.

Gli ucraini hanno dato prova costante della propria capacità di fare la guerra, ma non possono vincerla senza le armi degli alleati e senza la possibilità di utilizzarle come e dove servono. Washington, che ha attraversato un’estate sconvolgente con il ritiro di Joe Biden dalla corsa presidenziale e un passaggio di consegne elettorali alla vicepresidente ora candidata Kamala Harris, ha accumulato motivazioni diverse per mantenere le restrizioni d’utilizzo alle armi di produzione occidentale in dotazione all’Ucraina: si potrebbe mettere a repentaglio un eventuale “reset” futuro con Mosca hanno detto alcuni, o gli Atacms a lungo raggio comunque non cambierebbero di molto la guerra hanno detto altri. Tutte scuse, dicono anche molti militari americani, che hanno un effetto perverso, come ha dichiarato il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis: “Gli aerei russi sono più protetti dalle garanzie occidentali di quanto lo siano i civili ucraini”. E’ per questo che al fondo del dibattito sull’utilizzo delle armi in territorio russo c’è una domanda cruciale: l’America la vuole per davvero la vittoria dell’Ucraina? Se la risposta è sì, basta fidarsi di Kyiv.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi