in medio oriente

In attesa di un accordo tra Israele e Hamas, si apre una domanda: una democrazia può sconfiggere il terrorismo?

Micol Flammini

L'intesa è necessaria, ma siglandola Israele e i suoi alleati accettano che il gruppo rimanga l'unico attore a controllare la Striscia. La fine di un conflitto che porterà altra guerra, le conseguenze internazionali e i cambiamenti non più rimandabile dentro allo stato ebraico

Dopo aver ucciso sei ostaggi tenuti prigionieri in un tunnel della città di Rafah, nel sud della Striscia, Hamas ha iniziato a stravolgere ancora una volta  le regole dell’accordo che dovrebbe portare alla fine della guerra a Gaza e alla liberazione delle persone che sono state rapite il 7 ottobre. Gli occhi e le conseguenti critiche  sono tutti rivolti verso Israele e le continue dichiarazioni molto contestate del premier, Benjamin Netanyahu, di non voler spostare i soldati dal corridoio Filadelfi, la strada che divide la penisola egiziana del Sinai e la Striscia, che per anni è stata una delle arterie di rifornimento di Hamas. Mentre Netanyahu porta mappe per dimostrare l’esigenza di rimanere a Filadelfi, però, le agenzie di sicurezza e la leadership militare di Israele fanno piani per garantire  che la sicurezza può essere certa anche senza un impegno costante di Tsahal a presidio. Gli Stati Uniti non si dimostrano molto preoccupati per le insistenze e le divisioni sulla presenza dei soldati israeliani a sud di Gaza, sono altre le pretese che preoccupano e vengono da Hamas che, secondo le informazioni di Axios, avrebbe reclamato la scarcerazione di un numero maggiore di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per liberare in cambio  gli ostaggi che, vivi o morti, sono ancora nelle mani dell’organizzazione. L’accordo che è sul tavolo e che gli Stati Uniti stanno ancora cesellando, non prende in considerazione che cosa bisognerà fare con Hamas quando la guerra sarà finita e Israele, appoggiando l’intesa, ha già accettato il fatto che dovrà continuare ad avere a che fare con i terroristi della Striscia che, dopo il 7 ottobre, dopo aver ucciso, stuprato, rapito gli abitanti dei kibbutz e trascinato i gazawi sotto le bombe di Tsahal, saranno ancora i padroni di Gaza. “Israele ha davanti a sé soltanto opzioni pessime”, dice al Foglio Michael Milshtein, esperto di questioni palestinesi e conoscitore approfondito di Hamas. “Lo stato ebraico può considerare o l’occupazione della Striscia, che ha già escluso anche perché è complessa, dispendiosa e trascinerebbe Tsahal in uno scenario di guerriglia, o l’accordo che servirà a liberare gli ostaggi ma metterà in libertà altri terroristi che torneranno a combattere con Hamas” sia  a Gaza sia  in Cisgiordania. Hamas è molto di più di un’organizzazione terroristica e Milshtein preferisce chiamarla “entità terroristica”. Il gruppo non ha soltanto i suoi battaglioni e le sue armi, ma in questi anni è entrato in ogni piega della vita di Gaza: nelle moschee, nell’educazione, negli ospedali, nei media. “Hamas controlla tutto e non si sconfigge eliminando ogni suo  leader, ne uscirà sempre un altro, come fosse una coda di lucertola. Non si sconfigge neppure privandola di tutti i suoi missili o dei suoi combattenti. Dopo undici mesi di guerra, Israele è riuscito a depotenziarlo, ma il regime è sempre lì e rimane l’unico attore di Gaza”. Un’occupazione con l’obiettivo di portare alternative concrete per cambiare la società sarebbe una strada tortuosa e molto lunga per privare Hamas di tutte le sue forze, ma Israele ha già deciso: non è a Gaza per restare, non può permettersi di rimanere a lungo. Accettando l’accordo, Israele accetta che Hamas rimanga l’unico attore di Gaza, “è triste, anzi è tragico, ma a questa guerra dobbiamo porre fine”. Questo tipo di conflitto, insiste Milshtein, porta all’attrito, invece Israele deve accettare l’accordo per liberare gli ostaggi, curare le sue divisioni interne che debilitano lo stato e non perdere di vista il fatto che ha rimesso in libertà dei terroristi che porteranno nuova linfa al gruppo e quindi nuova guerra a Israele. L’accordo chiude questo conflitto e ne aprirà un altro: è una consapevolezza diffusa e inevitabile. Questa settimana, dopo l’uccisione dei sei ostaggi, uno dei quali, Hersh Goldberg-Polin, aveva la cittadinanza americana, gli Stati Uniti hanno deciso di incriminare sei leader di Hamas, solo due dei sei sono vivi: Yahya Sinwar e Khaled Meshaal. Jason Brodsky, analista conoscitore di medio oriente e direttore dell’organizzazione Uani, United Against Nuclear Iran, ritiene che l’incriminazione sia il primo passo, poi però gli Stati Uniti dovrebbero guardare oltre e “incriminare la leadership iraniana per il suo sostegno a Hamas nel compiere gli omicidi degli ostaggi”. Di fatto però, l’accordo su cui lavorano gli Stati Uniti non prende in considerazione come si agirà nei confronti non solo dell’Iran ma anche degli stessi leader di Hamas, che non ha regole, usa gli ostaggi per negoziare, “si nasconde tra la popolazione civile per impedire una vittoria totale di Israele, che ovviamente ha una capacità militare di gran lunga superiore. Hamas sa come aumentare la pressione internazionale su uno stato come Israele, e lo fa proprio perché non ha regole proprie né è sottoposto a regole internazionali, mentre Israele lo è”, dice Brodsky al Foglio. L’accordo è l’unico modo per rivedere gli ostaggi, metterà lo stato ebraico di fronte a conseguenze rischiose, e tutto il mondo di fronte alla consapevolezza che “l’entità terroristica”, per usare la definizione di Milshtein, rimarrà impunita e al potere. Il rischio è di trovarsi di fronte a una morale amara che segna l’impossibilità per le democrazie di sconfiggere il terrorismo, a Gaza come in Afghanistan, come in Siria, come in Libano, come in Iraq. “Contro i terroristi la parte militare è molto, ma non tutto. Il cambiamento deve essere più ampio, sociale, culturale. Deve esserci anche un autocambiamento. La storia, in paesi come la Germania o il Giappone, dopo la Seconda guerra mondiale, lo ha mostrato con chiarezza”, conclude Milshtein. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)