Democrazia alle strette
La Russia vota, ma non si vede
Sarà un fine settimana elettorale, i partiti tollerati dal Cremlino sono pochi e si contendono secondi posti. Della democrazia non c’è neppure la finzione, ma qualcuno ci crede ancora e rispolvera le tecniche di Navalny
Mosca. Perché occuparsi delle elezioni di un paese che rivendica apertamente di aver abbandonato la strada della democrazia liberale? Tra il 6 e l’8 settembre in Russia si rinnovano le cariche elettive di numerosi organi regionali e comunali. Più che mettere in luce l’evoluzione delle classiche dinamiche competitive tra maggioranza e opposizione – concetto, quest’ultimo, ormai svuotato di un significato politico-costituzionale – l’appuntamento va letto quale cartina al tornasole del “regolamento di conti” tra le varie componenti del regime. Quando mancano due anni alle più importanti elezioni per la Duma di stato, il voto di questi giorni consente di pesare diversi elementi, tra i quali: il grado di consenso personale dei governatori, il cui ruolo, in sinergia con la potente amministrazione presidenziale, è andato nettamente rafforzandosi tra pandemia e guerra; la popolarità territoriale del partito al governo, Russia unita; il posizionamento e la consistenza elettorale degli altri partiti della cosiddetta opposizione sistemica, formata da comunisti (Kprf), nazionalisti (Ldpr), social-populisti (Srp) e centristi (Novye Ljudi). Solo in ultima battuta, può essere utile misurare anche il tasso di resistenza mostrato dai candidati indipendenti o da quel che resta dell’opposizione liberal-democratica (Yabloko), la cui rappresentanza è ormai una variabile dipendente dalla tolleranza delle autorità locali.
Il turno elettorale raggruppa le elezioni di venticinque governatori (ventuno dei quali a legittimazione popolare diretta) e di tredici assemblee legislative regionali (tra cui quella della città-stato di Mosca), tre elezioni suppletive per la Duma di Stato e, infine, il voto di molti consigli comunali, anche in città capoluogo (come, per esempio, Celjabinsk, Khabarovsk, Irkutsk, Murmansk). Nelle regioni di frontiera con l’Ucraina, il voto è stato anticipato a partire dal 28 agosto e in qualche distretto interessato dalle evacuazioni verificatesi dopo l’offensiva nel Kursk persino rinviato. L’ipotesi di rimandare anche l’investitura del governatore dell’oblast, appena nominato ad interim da Vladimir Putin, dopo che a maggio il suo predecessore era entrato a far parte del governo come ministro dei Trasporti, è stata, invece, recisamente scartata nel tentativo di continuare a dare l’impressione che la situazione sia sotto controllo.
Anche quest’anno la presidente della commissione elettorale centrale, Ella Pamfilova, ha snocciolato le statistiche che dimostrerebbero la varietà dell’offerta politica, ma il contesto istituzionale di fondo in cui le consultazioni si svolgono è ovviamente quello militarizzato della guerra in cui il paese versa da due anni e mezzo. Il multipartitismo è, pertanto, un’etichetta che sta ormai stretta anche alle autorità federali, le quali hanno smesso di scimmiottare i sistemi occidentali con esperimenti di “democrazia gestita” e rivendicano apertamente la costruzione di un sistema oligarchico in cui i ruoli ai vari partiti sono attribuiti dall’alto, in modo che ciascuno di essi disturbi il manovratore il meno possibile, pur conservando un certo séguito elettorale che viene accertato attraverso un voto ormai prevalentemente elettronico e senza alcun bisogno di osservatori indipendenti, se è vero che la maggiore organizzazione che difende i diritti degli elettori, Golos, è stata inclusa nel registro degli agenti stranieri e il suo fondatore, Grigory Melkonyants, è in carcere dall’anno scorso. Il suffragio online, peraltro, consente di controllare meglio i pacchetti di voti che rispondono ai grandi datori di lavoro pubblici e privati, veri e propri motori di un’affluenza che il regime, anche grazie a lotterie e premi collegati all’esercizio dell’elettorato attivo, cerca in tutti i modi di riportare a livelli accettabili.
Russia unita, partito alla guida del paese e alla cui testa c’è l’ex presidente e membro del consiglio di sicurezza, Dmitri Medvedev, ha innanzitutto l’obiettivo di vincere tutte le elezioni per il rinnovo dei governatori al primo turno, come ha spiegato senza troppi giri di parole il quotidiano economico Vedomosti. Che la vittoria al primo turno sia un assioma è stato confermato anche da Sergei Perminov, vice segretario del consiglio generale del partito. Per centrare l’obiettivo, Russia unita non è più disponibile a tollerare exploit dei partiti dell’opposizione di facciata, tra cui il partito comunista che, infatti, più ancora che in passato, lamenta la privazione della registrazione per i suoi candidati più forti. Ciò sarebbe accaduto nell’Altai e negli oblast di Lipetsk e Orenburg, ma anche a Mosca, dove a Pavel Tarasov, deputato uscente della Duma cittadina, è stato impedito di registrarsi sulla base di accuse pretestuose che il politico accetta di illustrare anche al Foglio: “Prima le autorità hanno vietato al partito comunista di presentare le candidature di due colleghi, sottoponendo uno a procedimento penale ed etichettando l’altro come agente straniero. Dopodiché, hanno rimosso dalla lista anche il mio nome per una critica che ho rivolto alle azioni brutali della polizia, ma che riguarda fatti persino precedenti alla mia candidatura per la legislatura in corso e che, in ogni caso, il codice degli illeciti amministrativi non prevede tra le ipotesi di privazione dell’elettorato passivo”. Nel mese di agosto, Tarasov ha anche organizzato un partecipato flashmob di protesta davanti alla stazione del metrò Aviamotornaya. Un piccolo spazio di libertà che contrasta vistosamente con le tradizionali vetrinette delle informazioni istituzionali poste all’ingresso dei condomini moscoviti, tutte tappezzate dai manifesti dei candidati di Russia unita. Richiesto di spiegare come ci si possa stupire dell’arbitrio che regna in un regime non democratico, Tarasov preferisce non rispondere.
E’ evidente che Russia unita abbia, infatti, bisogno non soltanto di confermare la propria indiscussa leadership dove già governa, ma anche di recuperarla dove ha perso terreno o dove ci sono figure fresche di nomina presidenziale che ora, per la prima volta, richiedono il voto degli elettori, proprio come nell’Altai, dove è stato esiliato l’ex segretario generale del partito, Andrei Turchak o nel territorio di Khabarovsk, dove i nazionalisti di Ldpr fino al maggio scorso esprimevano il loro unico governatore, poi entrato nel governo di Mishustin come ministro dello sport. Qui il candidato prescelto da Putin, l’ex viceprocuratore generale della Federazione, Dmitri Demeshin, ha perfino scelto di sottoporsi a un dibattito pubblico con i propri “avversari”, circostanza che tutti gli incumbent, specie quelli più deboli, come il governatore di San Pietroburgo, Alexander Beglov, hanno altrimenti accuratamente evitato. Se dunque Ldpr e Kprf si disputeranno la seconda posizione in un contesto di forte riduzione di seggi contendibili, Novye Ljudi, partito di centro nato con la benedizione del Cremlino per intercettare l’elettorato più moderato, è destinato a sostituire Srp (Russia giusta), ormai in forte emorragia di suffragi. E’ stato, del resto, il suo fondatore – un vecchio arnese della politica russa come Sergei Mironov, deputato ed ex presidente del Senato – ad annunciare anzitempo ai media che il proprio partito si avvia a subire “una schiacciante sconfitta”.
In un recente sondaggio nella città-stato di Mosca, dove la campagna elettorale è stata quasi del tutto inesistente, Russia giusta è data addirittura sotto Yabloko (2,1 per cento contro il 3 per cento), formazione che, però, per la prima volta, non è stata ammessa al voto. Il “partito della mela” (yabloko, in russo vuol dire mela), tra i più longevi della Russia postsovietica e in campo in altre regioni con la coraggiosa campagna “per la pace e la libertà”, disponeva di una compagine di ben 5 deputati (su 45) nel parlamentino della capitale. A due di loro è stato impedito candidarsi – Daria Besedina in quanto agente straniero, Vladimir Kalinin per l’esposizione di simboli estremisti. Gli altri non sono riusciti a raccogliere le firme necessarie. O meglio, Maxim Kruglov sembrava avercela fatta, ma la commissione elettorale ha riconosciuto la validità soltanto di una parte di queste, decisione confermata poi in tutte le istanze di giudizio. Per i liberaldemocratici, ancora oggi affiliati all’Alde, la strada è così sbarrata non solo alla Duma di stato, dove mancano da più di quindici anni, ma anche nelle due principali città del paese, dove erano tradizionalmente più forti e potevano godere di una visibilità analoga a quella federale: a San Pietroburgo, dove, oltre al governatore, si eleggono i consigli degli 82 distretti, le candidature di Yabloko sono, infatti, state rifiutate in blocco, adducendo difetti di procedura nell’individuazione dei candidati da parte degli organi interni del partito. Da ultimo, persino il tentativo di partecipare alle elezioni di un piccolo distretto della capitale (a Kurkino, 30.000 abitanti), è stato frustrato da un ricorso dell’ultimo secondo di un candidato concorrente. La capolista, Maria Chuprina, non si perde d’animo: “E’ sempre più difficile avere fiducia nel sistema giudiziario, ma dobbiamo mostrare che c’è ancora qualcuno che difende i propri diritti” – ha spiegato in una conversazione con il Foglio quando ancora il ricorso era pendente – “Io non ho paura, non lascerò il paese, voglio continuare a parlare con le persone (ndr: il suo canale YouTube ha 70.000 iscritti) e a convincerle che esiste una forza politica che si oppone a tutto quello che sta accadendo”.
Sebbene Chuprina sostenga che gli iscritti al partito siano in aumento, Yabloko è un movimento che, specie dopo l’avvio di quella che il Cremlino obbliga a chiamare “operazione militare speciale”, pare aver fatto il suo tempo, tanto da non incontrare il favore nemmeno di quelle poche figure che, in maniera più o meno disinteressata, provano a lanciare nuovi progetti di opposizione. Tra queste c’è anche l’ex deputato dell’unione delle forze di destra, il 61enne Boris Nadezhdin, nella cui improvvisa candidatura alle presidenziali avevano riposto fiducia migliaia di pacifisti russi prima che, come prevedibile, gli fosse negata la registrazione. Ora Nadezhdin, che attorno a sé ha creato una squadra giovane e piuttosto attiva, ci riprova da dietro le quinte, rispolverando il metodo dello “smart voting” di Alexei Navalny: il suo seguitissimo canale telegram ha messo a disposizione degli elettori un bot per le elezioni della Duma cittadina di Mosca in grado di individuare il candidato con le maggiori probabilità di battere gli uomini di Russia unita. Nadezhdin, che non ha certo il carisma di Navalny, pare, però, aver scordato che non siamo più nel 2019. Su Mosca è calata una cappa che neanche gli idealisti più convinti sognano ancora di diradare.
I conservatori inglesi