Il 9 aprile 2003 le truppe americane a Baghdad e rimuovono la statua di Saddam Hussein (foto Getty) 

Il medio oriente in pezzi. Un libro controverso

Gianni Sofri

Robert D. Kaplan spiega come i malesseri del mondo arabo siano sfuggiti al controllo degli imperi per riversarsi in un calderone di divisioni, estremismi, guerre e modelli traditi

Grazie a mio fratello Adriano, che me lo ha regalato, ho potuto leggere (e posso ora parlarne) il libro recente di Robert D. Kaplan: Il Grande medio oriente. Viaggio al centro della storia tra impero e anarchia, Marsilio 2024 (Edizione originale 2023). Kaplan, nato nel 1952, è un giornalista, scrittore, analista politico, dalla vita movimentata. E’ stato per molti anni inviato speciale, soprattutto dalle “zone calde” del mondo, e gran viaggiatore. Ha raccontato l’Iraq e l’Afghanistan. La sua biografia su Wikipedia, molto vasta e dettagliata, che ognuno può consultare, ne elenca numerose attività. Come studioso e giornalista si è occupato soprattutto di Europa orientale e di medio oriente, che preferisce chiamare “Grande medio oriente”, comprendendovi anche la Grecia e l’Egeo e spingendosi, nella sua ricostruzione del mondo islamico, fino all’Asia centrale, allo Xinjiang, e alla lunga ombra cinese che si stende su questa intera area.
Non è un accademico in senso stretto, ma tiene corsi (sempre da Wikipedia) in numerose università americane, e ha spesso dialogato con esponenti dell’Amministrazione americana ai più alti livelli, esortandone o criticandone le scelte politiche e militari. Come analista ed esperto di geopolitica, ha tenuto e tiene lezioni e distribuisce consulenze per Fbi, Cia, il corpo dei Marines e altre agenzie che si occupano della sicurezza nazionale. E’ stato amico intimo di Kissinger. 


Il libro è interessante per molte ragioni, anche se in più punti discutibile. Il primo elemento di interesse sta nell’avere per oggetto un’area molto vasta (donde il titolo), al cui interno l’autore è in grado di sottolineare le differenze e gli elementi comuni, e in ogni caso le connessioni. A questo si aggiunge una conoscenza, in qualche caso anche personale, di molti fra i maggiori specialisti del medio oriente. Arnold Toynbee compare in 16 pagine, tanto da far apparire il libro come una sorta di corpo a corpo con questo autore spesso discusso, ma che secondo Kaplan merita ampiamente di essere ancora preso in considerazione, per molte idee intelligenti, tra le quali l’attenzione riservata alla geografia. Lo stesso Kaplan, da parte sua, ha scritto un libro intitolato The Revenge of Geography, 2013, che non mi risulta ancora tradotto in italiano, e che il geografo Harm de Blij ha accusato di “determinismo ambientale” (cosa su cui non sono in grado in questo momento di dare un parere). 

   

Il punto di riferimento di Kaplan è senza dubbi Elie Kedourie, il grande studioso britannico del medio oriente

  
Kaplan si astiene in generale da attacchi frontali nei confronti di questo o di quello studioso di medio oriente. Espone in maniera brillante la discussione accanita che si svolse nei primi anni Ottanta tra Edward Said e Bernard Lewis: il primo, letterato e critico dell’imperialismo e dell’Orientalismo a esso connesso (il libro con questo titolo era uscito nel 1978), nonché uno degli iniziatori degli “studi postcoloniali”; il secondo, di una ventina d’anni più anziano (morirà nel 2018, sulla soglia dei 102 anni), grande erudito e storico del mondo arabo e di quelli turco e persiano. Kaplan non prende parte decisamente per uno dei due: concede a Said di essere un interprete “vincente” dell’aria del tempo, il cui libro diviene e resta, malgrado i molti critici (tra i quali anche un esempio illustre, Arnaldo Momigliano), un crinale in questo campo di studi; ma parla quasi con nostalgia di Bernard Lewis e delle sue “storie sorprendentemente chiare e concise del medio oriente, che enfatizzano la narrazione degli avvenimenti con dettagli interessanti tratti dalle sue ricerche negli archivi ottomani”. Ha, comprensibilmente, grande stima per Maxime Rodinson; ma il suo principale punto di riferimento è Elie Kedourie, il grande studioso britannico del medio oriente di origine ebraica sefardita irachena. 

   
Le posizioni di Kedourie (1926-1992) e quelle del ben più giovane Kaplan sono talmente vicine e intrecciate da apparire spesso difficilmente distinguibili. Kaplan segnala poche divergenze. In un punto scrive che Kedourie “manca senz’altro di empatia [nei confronti del suo oggetto di studio, e cioè della storia degli arabi nel Novecento], ma non significa che sbagli”. Un punto di dissenso tra i due riguarda T. E. Lawrence, o Lawrence d’Arabia. Kedourie, oltre ad accusarlo di errori durante e dopo la Prima guerra mondiale, dovuti a una politica avventurista e irresponsabile, ritiene I sette pilastri della saggezza un resoconto storico scadente, “pieno di perorazione e retorica”. Kaplan, invece, lo considera una “pietra miliare” per la storia militare e la letteratura di viaggio ed etnografica. 


Entrambi gli studiosi hanno nella propria biografia un evento-simbolo che ne ha segnato le rispettive vite, ma in tempi diversi. Per Kedourie è un evento adolescenziale, che lo ha colpito drammaticamente: era fuggito dall’Iraq a ventidue anni nel 1947, dopo aver assistito ai pogrom del ’41 e alle successive “leggi infami” che portarono alla fine della storia della comunità ebraica irachena, antica di 4.500 anni. Quel pogrom (noto come farhud, “saccheggio”), che aveva comportato l’uccisione di 180 ebrei, uomini, donne e bambini, a opera di polizia ed esercito iracheni, era stato il seguito di un colpo di stato da parte di ufficiali filonazisti, che mirava a un’alleanza tra Iraq e Germania hitleriana: l’esercito britannico lo soffocò, ma quando il pogrom  ebbe inizio intervenne solo dopo due giorni di violenze, sembra per una esitazione dell’ambasciatore, pur sollecitato dal Foreign Office (e dagli stessi ufficiali britannici che avevano visto quanto stava accadendo).

 
Questi eventi avrebbero segnato Kedourie per tutta la vita, inducendolo a una visione severa e severamente realistica delle vicende mediorientali, temperata da una erudizione e da una conoscenza veramente rara dei fatti storici e contemporanei, riconosciuta anche dai suoi critici.


Arrivato a Londra, Kedourie aveva studiato alla London School of Economics e al St. Antony’s College di Oxford, ma quando presentò la sua tesi di dottorato (più tardi pubblicata con il titolo England and the Middle East), fu oggetto di critiche e richieste di modifiche da parte di uno degli esaminatori, Sir Hamilton A. R. Gibb, professore di arabo e studioso di Maometto e dell’islam. Kedourie, che pure non negava, né lo avrebbe fatto in seguito, un “ruolo civilizzatore”, e quindi positivo, dell’Impero britannico, esprimeva tuttavia giudizi negativi nei confronti delle sue politiche. Criticava, per esempio, sia la decisione britannica di dar vita al Regno dell’Iraq nel 1921, sia l’immagine diffusa di Lawrence “eroe romantico”. Il rifiuto di Kedourie, davanti a un’“autorità” come quella di Sir Hamilton Gibbs e al prestigio di Oxford, di apportare correzioni alla propria tesi, rinunciando per il momento al dottorato, venne visto da molti come un atto di grande coraggio nei confronti dell’accademia. 


Nel 1953 venne chiamato a insegnare Politica alla London School of Economics, e continuò a farlo fino a due anni prima della morte. Fondò e diresse la rivista Middle Eastern Studies.

 

Per Robert D. Kaplan, l’evento-simbolo fu più tardivo, e si collegò a una vita già ricca di libri e di reportage giornalistici. Fu l’invasione dell’Iraq del marzo 2003 da parte di una coalizione (molto debole in quanto tale, priva per esempio di Francia e Germania, e a massiccia prevalenza americana). 

  

 Il ritorno di Kaplan in Iraq e lo spettacolo di un’anarchia peggiore del regime di Saddam lo portarono in depressione

   
Subito dopo l’11 settembre, Kaplan aveva collaborato a un report che consigliava all’Amministrazione Bush di rovesciare il regime di Saddam. Conservò anche in seguito la stessa posizione, malgrado un timore che esplicitò: “La destituzione di Saddam minacciava di disintegrare tutto il paese, lacerato dalle differenze etniche, se non si fosse agito in fretta e in concreto insediando gente davvero in grado di governare”. Il ritorno in Iraq nella primavera del 2004 e lo spettacolo di un’anarchia più spaventosa del regime di Saddam – racconta Kaplan – lo fecero precipitare in una profonda e duratura depressione. Gli sembrò una “prova di realismo fallita” dell’impossibilità di cambiare il regime senza mandare in pezzi il paese, e ne uscì proponendosi di diventare “un realista migliore”.


Kedourie, e sulla sua scia Kaplan, riferendosi a molte esperienze storiche diverse (dagli esperimenti costituzionali nell’Egitto ottocentesco alle vicende di Iraq e Siria negli anni Duemila) tendono a sottolineare in primo luogo il peso di una realtà oggettiva fatta di grandi differenze etniche, religiose, claniche e tribali, culturali, sociali. E con esse, nazioni e confini mai esistiti, e “tradizioni di crudeltà” come si sono viste in tanti paesi dall’Iraq alla Libia alla Siria (riguardo a quest’ultima, Kaplan considera il non intervento, contro le opinioni prevalenti tra le élites di Washington, come un successo di Obama, per aver tenuto il piede sul freno, salvando moltissime vite, benché la Siria sia sprofondata lo stesso nel caos).

 
Tutto questo insieme di problemi appariva tollerabile all’interno di imperi (ovviamente quello ottomano, ma anche quello britannico, che si estendeva dall’India fino alla Mesopotamia e ad Aden, sia pure con una importante soluzione di continuità tra Persia e Afghanistan): imperi che controllavano i conflitti e proteggevano le comunità. Conflitti pronti invece a esplodere nel medio oriente postcoloniale e post Guerra fredda, portando a emergere in successione i nazionalismi arabi, poi i “totalitarismi baathisti”, infine al Qaida, l’Isis e affini. In altre parole, il declino degli imperi monoetnici avrebbe portato al disastro della frammentazione e dell’anarchia.

 
Kedourie ha espresso una forte condanna dei nazionalismi, non solo arabi, in uno dei suoi libri più importanti (Nationalism, 1960, traduzione italiana a cura di A. Mingardi, 2021). E Kaplan osserva come il genocidio degli armeni non sia stato l’opera dell’impero, ma dei Giovani turchi nazionalisti monoetnici. La stessa cosa si può dire dei reciproci massacri fra turchi e greci del 1919-22.

 
L’avere sottovalutato questo insieme di problemi, privilegiando invece la “risoluzione” dei rapporti del medio oriente con l’imperialismo e il sionismo, è la prima critica che Kedourie e Kaplan muovono a politici e studiosi inglesi e americani. Con in più l’assenza di adeguati esami di coscienza (con l’eccezione dell’Amministrazione Obama, ammesso che sia vero che il suo non intervento in Siria sia stato il frutto, sia pure non dichiarato, della lezione irachena). L’Europa e poi gli Stati Uniti continuarono a pensare che bastasse suggerire, o imporre, un modello, elaborato altrove in tempi molto lunghi. Dopo l’Iraq, si ripeté l’errore nel 2011 con Gheddafi (e con gli stessi risultati di divisioni, massacri, anarchia e migliaia di morti).

   

L’occidente non capì quanto poco spazio da dedicare alle esperienze democratiche ci fosse in medio oriente

   
Le politiche occidentali non avrebbero capito quanto poco spazio da dedicare alle esperienze democratiche ci fosse, nei paesi del medio oriente, fra tirannide e anarchia. Così avrebbero dato credito ai giovani arabi e ai loro movimenti senza rendersi conto che stavano operando un’annessione delle tecniche europee senza collegarle ai processi secolari, culturali e politici, che le avevano permesse. Nelle città – scrive ancora Kaplan – si cominciò a vivere l’occidente come un “insieme di cose”, e non come un complesso movimento della storia del quale essere protagonisti.


I giovani arabi inseguivano un sogno, e l’occidente li aiutava a farlo, invece di indurli alla ricerca di mediazioni realistiche, praticabili, moderate. Kaplan cita una frase di Albert Camus (p. 326) secondo cui “quanti insorgono contro l’autorità centrale devono proporre un regime migliore con il quale sostituirla, altrimenti risulteranno, dal punto di vista morale, anch’essi inadeguati”. Quanto a Kedourie, sosteneva anche, su una linea molto vicina (conservatrice o moderata, secondo alcuni reazionaria), che “non si dovesse considerare solo la democrazia, ma aspirare a regimi consultivi al posto di quelli arbitrari, ascoltando l’opinione pubblica anche in assenza di elezioni. Puntare a ciò che è possibile piuttosto che a ciò che è solo giusto”. Una società stabile era per Kedourie un valore importante, al quale era lecito sacrificarne altri: non a caso, egli vedeva in Marocco, Oman e Giordania i regimi meno oppressivi. Nella guerra di Algeria fu fortemente avverso all’Fln, che considerava l’espressione di un nuovo autoritarismo totalitario, appoggiò in più momenti i coloni francesi, e non risparmiò le critiche a De Gaulle per aver favorito il successo dell’Fln.


Sempre Kedourie invitava l’occidente a liberarsi dal vittimismo e dal senso di colpa. E attribuiva buona parte della responsabilità per i fallimenti della diplomazia britannica a studiosi come Toynbee e ai suoi collaboratori di Chatham House (il Royal Institute of International Affairs), che lo stesso Toynbee aveva diretto per quasi trent’anni. I quali, a suo parere, avevano ceduto troppo spesso alla fascinazione dell’esotismo (dai tempi di Lawrence d’Arabia in poi) e a vedute romantiche dell’islam e del nazionalismo arabo. Già in una delle sue prime opere (The Chatham House Version: And Other Middle Eastern Studies, del 1970) Kedourie aveva esposto queste sue tesi aprendo una rude polemica con Toynbee che sarebbe durata decenni (Kedourie avrebbe peraltro elogiato Toynbee per un suo scritto sui rapporti greco-turchi come “caso” di incontro fra civiltà). Nel libro su Chatham House, Kedourie aveva anche attaccato il governo imperiale britannico per non aver difeso gli ebrei iracheni negli anni Quaranta.


Per un approccio in parte (e non sempre) diverso alle tematiche del medio oriente nell’ultimo secolo, non vanno dimenticati i due volumi di Marcella Emiliani, scomparsa di recente: Medio Oriente, Laterza, rispettivamente 1918-91 e 1991 a oggi (in realtà, 2018, coprono esattamente un secolo). 


Tornando a Kaplan, per concludere, l’interesse del suo libro è innegabile, così come che sia carico di problemi, e anche di dubbi sui quali soffermarsi più ampiamente. Può stupire il fatto che l’autore, che pur scrive spesso su Israele, che da giovane vi dimorò per alcuni anni e per un anno militò anche nell’Idf, non abbia sentito il bisogno di trattare anche di questo paese nel suo vasto quadro dell’area geografica della quale fa parte. 

  

Due dubbi: la tenuta dell’impero ottomano e la croce tracciata sopra ogni idea interventista dell’occidente

   
Quanto ai dubbi, accenno brevemente a due. Il primo. Molti studiosi della Turchia o del medio oriente in generale avrebbero ampiamente da ridire sul fatto che l’Impero ottomano garantisse la coesistenza fra le sue molte comunità (arabi, turchi, curdi, armeni, ebrei, sunniti, sciiti e così via). Già prima della fine dell’Impero, il controllo del suo centro sui molti territori periferici dell’islam era stato spesso più nominale che effettivo. Con il linguaggio usato dagli stessi Kedourie e Kaplan, si sarebbe indotti a pensare, piuttosto che a una realtà, a una sua idealizzazione.
Il secondo dubbio. Kaplan e il suo mentore sembrano tracciare un segno a forma di croce sulla parola “intervento”, anche se poi, nel corso della trattazione, emergono più volte dei richiami alla complessità delle situazioni storiche e anche del peso morale che accompagna spesso le scelte politico-diplomatiche. Penso agli interventi militari, con i bombardamenti dell’estate 1995 e del 1998-99 nella ex Jugoslavia, voluti dal presidente americano Clinton ed eseguiti dagli aerei della Nato. I primi contro obiettivi serbo-bosniaci: circa un mese prima, a Srebrenica, più di 8.000 uomini e ragazzi musulmani bosniaci erano stati massacrati dalle truppe serbo bosniache, non senza responsabilità di militari olandesi dell’Onu che non lo avevano impedito. I responsabili diretti dell’eccidio vennero poi arrestati e condannati dal Tribunale internazionale speciale per la ex Jugoslavia. Nel secondo caso, l’intervento dall’aria prese di mira obiettivi serbi, in difesa del piccolo Kosovo minacciato dalla più grande e aggressiva Serbia.


Non potrei mai non ricordare il caso, diverso da quelli di cui si parla nel libro di Kaplan, ma che non è privo di connessioni con loro, e che sta comunque da più di due anni tragicamente sotto i nostri occhi: l’aggressione della Russia all’Ucraina. Anche qui c’è un impero che sembrava al tramonto, ma che uno zar autoritario e criminale vorrebbe ricostruire.


Kaplan termina il suo libro riportando un racconto tratto da una pagina di Owen Lattimore, grande sinologo, antropologo, viaggiatore, oltre che in India, in tutti i territori nei quali i cinesi, agricoltori e sedentari, si incontravano, e a volte si scontravano, con le popolazioni nomadi, pastorali e guerriere, del nord: i mongoli, gli antenati dei turchi e tanti altri. Nella Mongolia interna, Lattimore vide una fila di cammelli che avevano attraversato il Turkestan fermarsi “a due passi, forse a quattro passi” da una sfilza di vagoni ferroviari. “Due passi, forse quattro passi”, pensò, che separavano duemila anni. Kaplan commenta: nella nostra vita e in quelle future, una rete di autostrade, treni ad alta velocità, gasdotti e cavi a fibre ottiche coprirà il percorso che era stato delle vie della seta, e che oggi è anche il Grande medio oriente. Ma l’antichità continuerà a fondersi con il presente.

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