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Medio Oriente

Netanyahu contro tutti

Giulio Meotti

Bestia nera della stampa mondiale, sotto mandato d’arresto dell’Aia e delle piazze: la solitudine di Bibi e d’Israele

Lo scorso luglio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu voleva visitare Praga e Budapest sulla strada per gli Stati Uniti, dove avrebbe parlato per la quarta volta Congresso, un onore concesso soltanto a Winston Churchill. Ma alla fine, Netanyahu ha rinunciato: niente sosta europea per i timori che la Corte dell’Aia spiccasse un mandato di arresto. “Bibi” non mette piede in Europa dal 7 ottobre.


A quasi un anno dal conflitto più difficile di Israele dalla guerra d’indipendenza del 1948, una cosa è sempre più chiara. Che lo si stimi o lo si detesti, Netanyahu ha imposto la sua volontà sui grandi eventi del suo tempo. Tutti lo davano per spacciato l’8 ottobre. Ma nonostante le sue vulnerabilità politiche in patria e l’isolamento israeliano internazionale, Netanyahu ha mantenuto i fili del potere nelle sue mani molto più a lungo e con un’efficacia molto maggiore di quanto tutti si aspettassero dopo l’eccidio di Hamas. “Un robot giapponese programmato da allenatori americani”. Così il commentatore politico più famoso d’Israele, Nahum Barnea, definì Netanyahu nel 1996, quando vinse le prime elezioni e l’Economist gli dedicò una copertina su cui campeggiava il titolo: “Il grande sbruffone”.


Una carriera in una Sayeret Matkal dell’esercito, inglese perfetto, due lauree prese in quelle università americane che oggi paragona a quelle naziste, bugiardo politico di talento, sempre pronto a prendersi il merito e mai la responsabilità, Netanyahu è forte di un eloquio televisivo sensazionale, iniziato come vice ambasciatore in America e poi come capo della delegazione israeliana all’Onu. Era la prima guerra del Golfo e Bibi, indossando la maschera antigas in diretta tv, diventò il preferito della Cnn, per l’America l’espressione più autentica del sabra emancipato. Da allora, parte dell’istinto di sopravvivenza di Netanyahu è dimostrare di poter tenere testa all’America.


Oggi Bibi guida un paese profondamente polarizzato. I casi penali contro di lui stanno macinando nei tribunali. Migliaia di israeliani scendono regolarmente in piazza per chiederne le dimissioni. L’establishment militare israeliano è in aperta rivolta. La Corte suprema lo considera una minaccia costituzionale. Ex premier e suoi ex alleati, come l’intelligenza egolatrica fatta persona di Ehud Barak, invocano apertamente la sedizione contro Netanyahu, la cui politica è riassumibile con una parola yiddish: “chutzpah”. Vuol dire sfacciataggine, quella determinazione insieme sentimentale e ideologica, oggi così poco occidentale, di non arrendersi e di eliminare il nemico che vuole distruggerti e che Netanyahu ha preso dal padre, il durissimo Benzion, che nella casa del quartiere di Katamon, un modesto quartiere di Gerusalemme, fino a 102 anni ha seguitato a scrivere libri sulle infinite persecuzioni degli ebrei. Quando Benzion è morto, nel 2012, Netanyahu si rivolse direttamente a suo padre: “Mi hai sempre detto che una componente necessaria per qualsiasi corpo vivente, e una nazione è un corpo vivente, è la capacità di identificare un pericolo in tempo, una qualità che è andata perduta per il nostro popolo in esilio”. Chissà cosa avrebbe detto il padre il 7 ottobre.

Bibi è pura “chutzpah”.  La sfacciataggine che ha preso dal padre, Benzion, che fino a 102 anni scrisse libri sulla persecuzione antiebraica


La guerra di Gaza è iniziata con Hamas che ha esposto i catastrofici fallimenti strategici dello stato ebraico. Ci vorranno anni per attribuire una responsabilità precisa per la serie di errori di intelligence, politici e militari che hanno lasciato così tanti israeliani vulnerabili alla barbarie dei terroristi, ma i fallimenti chiave si sono verificati sotto Bibi, che aveva promesso due cose agli israeliani: “Sicurezza e un’economia forte”. L’idea di fortificare tutti i confini dello stato ebraico è di Netanyahu. La dottrina di Bibi è sempre stata pessimista: Israele deve chiudersi nei confini, come in un gigantesco vallo di Adriano, sviluppando i rapporti economici e diplomatici con il resto del mondo arabo che odia Teheran. Dopo il 7 ottobre, la dottrina ha mostrato lacune drammatiche. Ora si scopre che seimila palestinesi da Gaza sono entrati in Israele quella mattina di festa.


Il 7 ottobre cambia anche la politica di Netanyahu. Consapevole che la sicurezza di Israele richiede l’annientamento militare di Hamas, Bibi, finora così restio ad azzardi bellici su vasta scala, lancia una lunga guerra impopolare a livello internazionale e interno, per il suo rifiuto di anteporre il ritorno degli ostaggi alla vittoria militare che ha mobilitato l’opposizione interna, consapevole che, in caso di uno sciagurato accordo al ribasso, Israele diventerebbe “debole come la tela del ragno”, come disse Hassan Nasrallah in un famoso discorso quando Israele si ritirò dal sud del Libano nel 2000 per opera del suo rivale politico, Ehud Barak. Yahiya Sinwar, il brillante diavolo di Hamas, conosce gli ebrei e sa che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere per sempre le guerre nel deserto: anche il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan.


Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti sotto Netanyahu, ha affermato che il primo ministro è arrivato a pensare che la sopravvivenza di Israele sia intrinsecamente legata alla sua. “Questa convinzione gli consente di resistere a una pressione tremenda”. E da quante parti gli arriva: la destra radicale partner di governo, l’establishment militare nella persona del ministro della Difesa Yoav Gallant, gli Stati Uniti di Joe Biden, i famigliari degli ostaggi che lo accusano della morte dei loro cari, Hamas, l’Onu, gli alleati occidentali che devono gestire elettoralmente l’appoggio precario a Israele. E se non bastassero le decine di filmati in cui Hamas costringe i rapiti israeliani ad attaccare Bibi e chiederne la resa, ora ci si mettono anche i sindacati a paralizzare il paese. Forse non dimenticano le politiche thatcheriane con cui Netanyahu da ministro delle Finanze di Ariel Sharon li rimise al loro posto.

Tutte le pressioni: la destra partner di governo, l’establishment militare, Joe Biden, i familiari degli ostaggi, l’Onu, gli alleati occidentali, l’Iran


   

Netanyahu è diventato la bestia nera dell’intellighenzia internazionale e il capro espiatorio della stampa mondiale, che lo accusa di tenere in ostaggio i rapiti da Hamas e di voler continuare la guerra per motivi politici. Mentre l’antisemitismo si diffonde nel mondo, è Netanyahu che scatena l’odio. C’è chi lo paragona a Sinwar, che sa come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ha condiviso un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a una di Netanyahu accolto da membri del Congresso degli Stati Uniti.

Bibi è diventato Hitler nelle piazze di Londra, nei proclami di Erdogan, negli editoriali dei giornali scandinavi. Il mondo intero, l’esercito israeliano, le istituzioni politiche e intellettuali, l’Amministrazione Biden, hanno cercato di spezzare la sua presa sul potere o almeno di costringerlo a cambiare direzione. Ma per ora hanno tutti fallito. Bibi rimane al timone ed è già da tempo il più longevo primo ministro della storia israeliana, anche più di David Ben Gurion.
Nicolas Sarkozy: “Netanyahu? Non posso vederlo”. Replica Barack Obama: “Tu sei stufo, io devo trattare con lui tutti i giorni”. Così un famoso fuorionda al G20 di Cannes. Sarkozy oggi è l’ombra di quello che era, Obama è impegnato nell’elezione di Kamala Harris e Netanyahu è ancora al potere. “A pain in the ass”, ebbe a definirlo Obama. Un dito al culo. E Biden, “a bad fucking guy”. Un esasperato Bill Clinton disse in privato, dopo il suo primo incontro con Netanyahu nel 1996: “Chi cazzo si crede di essere? Chi è la fottuta superpotenza qui?”.


Nonostante la straziante tragedia degli ostaggi e delle loro famiglie, Netanyahu ha resistito alla richiesta di consentire ad Hamas di trarre profitto da stupri, rapimenti e torture facendo pagare a Israele un prezzo impossibile per il loro rilascio. Netanyahu ha superato in astuzia Biden, rifiutandosi di lasciare che una politica americana confusa in medio oriente dettasse l’agenda di Israele in una guerra esistenziale come non se ne vedevano dal 1948. E oggi Netanyahu è l’unico ostacolo sulla strada di Hamas, che chiede che Israele abbandoni il corridoio Filadelfi, la fondamentale striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sotto la quale Hamas fa passare armi ed equipaggiamento; che interrompa la guerra e assicuri di non uccidere Sinwar. In altre parole, vittoria per Hamas e resa di Israele.
Fu Netanyahu primo ministro nel 2011 a volere il rilascio di mille terroristi palestinesi, tra cui Sinwar, in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 terroristi responsabili della morte di 569 israeliani. E dal primo giorno del rapimento, la stampa come Haaretz incolpava Netanyahu di non volere lo scambio con Hamas. Corsi e ricorsi storici.


I terroristi palestinesi hanno appena ucciso sei ostaggi israeliani, tra cui un americano con doppia cittadinanza, e il colpevole è comunque Netanyahu. Non importa che il governo israeliano abbia inviato una delegazione dopo l’altra per negoziare con Hamas. Non importa che sia Hamas, non Netanyahu, a rifiutare qualsiasi accordo. Sfumature: è Bibi che ha abbandonato Ori Danino, Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alexader Lobanov, Almog Sarusi ed Eden Yerushalmi. Bibi deve accettare qualsiasi accordo, subito, e riportare a casa il resto degli ostaggi, a qualunque costo. E poi dovrà dimettersi. Magari andarsene in esilio in Florida assieme a Ron Dermer, il cui padre e fratello sono stati entrambi sindaci di Miami Beach.

        


La reazione della Casa Bianca, del governo britannico, della stampa occidentale e di parti di Israele è stata di dare la colpa al premier. Biden ha accusato Bibi di non aver “fatto abbastanza” per garantire un accordo sugli ostaggi. Il nuovo governo laburista britannico ha scelto il giorno del ritrovamento dei cadaveri dei sei per annunciare la fine di trenta licenze di esportazione di armi verso Israele. La spiegazione è che c’è un “rischio” che le armi possano essere utilizzate in violazione delle leggi umanitarie. Il governo di Keir Starmer intende le violazioni di Hamas che spara alla testa a degli innocenti?


L’opposizione americana ha tenuto Israele fuori da Rafah, dove Hamas ha tenuto i sei prima di ucciderli, per tre mesi. Kamala Harris aveva detto che un’invasione di Rafah avrebbe condannato i suoi civili. “Ho studiato le mappe, non c’è nessun posto dove quella gente possa andare”, disse Harris. Bibi ha dimostrato che si sbagliava, evacuando un milione di abitanti in due settimane. Ora anche la marea politica sembra nuovamente essere girata a favore di Bibi. Per la prima volta dal 7 ottobre, i sondaggi lo danno in vantaggio sul suo principale rivale, l’ex capo di stato maggiore il centrista Benny Gantz, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, alto, laconico e che trasuda pragmatismo. Ma nel caso di elezioni anticipate nessuna coalizione naturale avrebbero i 63 seggi per governare.


Hezbollah e l’Iran sembrano scoraggiati dalla risposta militare israeliana, con gli strike di Gerusalemme sul Libano e l’eliminazione a Teheran del capo di Hamas, Ismail Haniyeh. Ma tutti sanno che per sferrare un colpo efficace ai suoi nemici a nord, Israele dovrà non solo assassinare i capi del terrore, ma anche tornare a nord del fiume Litani e creare vaste zone cuscinetto. La sopravvivenza dello stato ebraico rimane un immenso work in progress e il conflitto con l’Iran resta irrisolto. Eppure, una cosa è chiara. Netanyahu sta lasciando impronte profonde nella storia e nella storia del popolo ebraico. Quanto alle piazze e ai media, Bibi taglia corto: “Preferisco avere cattiva pubblicità che un buon necrologio”.

 Tutti sanno che per sferrare un colpo efficace ai suoi nemici a nord, Israele dovrà tornare a nord del fiume Litani e creare zone cuscinetto


E in fondo subito dopo la fondazione di Israele, quando gli fu posta l’attenzione sulla probabile reazione negativa delle Nazioni Unite, anche David Ben Gurion sbottò: “E’ stata l’audacia degli ebrei a fondare lo stato, non una decisione di quell’Um Shmum”. Um Shmum si riferisce all’Onu (“Um” in ebraico) abbinandogli il prefisso “Shm” con cui si prende in giro. Tradotto: chi se ne frega dell’Onu? Israele è nato contro il parere del resto del mondo. Sopravviverà anche senza. Sbruffoni.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.