Interviste
Così gli altri fronti della guerra a Israele condizionano i negoziati a Gaza
Iran, Siria e Libano. L'influenza di Hamas si allarga anche oltre la Striscia di Gaza: l'obiettivo è una guerra su larga scala. E intanto in Cisgiordania, c'è la crisi economica
Ieri le forze israeliane dell’Idf hanno colpito la cittadina siriana di Masyaf, un quartier generale dell’Iran in Siria, considerato uno dei tentacoli di una piovra di cui Teheran è la testa ma con molteplici bracci. Talvolta incontrollati, come nell’ancora discusso caso del camionista giordano che domenica ha ucciso tre operatori israeliani che vigilavano sul valico di Allenby, in Cisgiordania. Ad aggravare la situazione, sul confine con il Libano, continuano gli attacchi da parte di Hezbollah che ieri ha colpito con un drone un edificio di Nahariya, nel nord di Israele. Pur non essendo riusciti ad uccidere e ferire nessuno, il ritorno dei cittadini israeliani nelle proprie case, al nord come al sud, sembra sempre più un miraggio, come il cessate il fuoco che, forse, potrebbe garantire il ritorno degli ostaggi israeliani ancora a Gaza.
Dani Zaken, esperto di geopolitica del medio oriente ed ex comandante di Radio Galatz, emittente radiofonica di Tsahal, dice al Foglio che Hamas non agisce soltanto a Gaza, ma si allarga anche alla Cisgiordania e a tutti i territori al confine con Israele: l’episodio di domenica va contestualizzato all’interno di quella che, dal punto di vista del gruppo terrorista, è una guerra “totale”. L’analista spiega che uno dei propositi principiali dell’attacco del 7 ottobre era proprio quello, nel grande progetto architettato da Yahya Sinwar, di ingaggiare una guerra su più fronti: fino a oggi, l’obiettivo è stato raggiunto solo in parte. Poiché Hezbollah, dal Libano, per ora si è limitato ad attaccare solo il nord e gli Houthi, dallo Yemen, solo il sud. Ma a vacillare, in questi giorni, sembrerebbe proprio la zona centrale di Israele, al confine con la Cisgiordania.
Come ricorda Zaken, i tentativi da parte dei gruppi terroristi in Cisgiordania di attaccare Israele non sono mai cessati, sia prima sia dopo il 7 ottobre, grazie anche al facile accesso alle munizioni proprio attraverso il confine giordano, difficile da sigillare in modo ermetico: i rapporti con Amman sono delicati, il confine è lungo 300 chilometri e ha tre diversi punti di accesso (oltre al valico di Allenby, colpito domenica, il valico di Rabin, al confine con Eilat, e il ponte sul Giordano, nei pressi di Beit Sheaan). A rendere ancora più complesso in questi undici mesi il controllo della Cisgiordania c’è anche il fatto che l’esercito si trova fortemente impegnato tra Gaza e il confine con il nord, per cui sia Hamas sia il Jihad islamico sia alcune unità estremiste di Fatah hanno approfittato di questa assenza per riarmarsi e trasformare il campo profughi di Jenin in un arsenale militare. Ragione per cui, nelle ultime settimane, Tsahal ha cercato, attraversato operazioni mirate, di eliminare, quanto più possibile, sia le infrastrutture sia i vertici del gruppo che stava programmando un altro massacro nella cittadina israeliana di Bat Kefer, al confine con il villaggio di Tulkarm, in Cisgiordania. Questo terribile attacco è stato efficacemente scongiurato ma, ricorda l’analista, solo due settimane fa, a Tel Aviv, è esplosa in aria un’automobile: “Fortunatamente nessuno ha perso la vita, ma il clima che si sta cercando di reinstaurare è quello della Seconda Intifada, quando si mandavano i figli a scuola su autobus diversi, per paura di perderli nello stesso attacco”.
Lo scopo principale di questa strategia su larga scala – conclude Zaken – è di rendere impossibile all’esercito il controllo di tutto Israele e dei suoi confini e, in questo modo, costringere lo stato ebraico a una situazione di fragilità estrema, obbligare il governo a scendere ai patti con Hamas e firmare un cessate il fuoco. A oggi il premier, Benjamin Netanyahu, sembra ben lontano dal voler scendere a compromessi con il gruppo terrorista, determinato, invece, a distruggere i loro quattro battaglioni ancora oggi operativi a Gaza. “Tuttavia, anche se si raggiungesse un accordo, questo non necessariamente garantirebbe la tranquillità nella Cisgiordania”, dice al Foglio Michael Milshtein, direttore del Forum di Studi palestinesi presso il Centro Moshe Dayan per gli studi mediorientali dell’Università di Tel Aviv: “Stiamo ormai assistendo ad una ‘Jeninizzazione’ di tutta la Cisgiordania. Se si era riusciti a mantenere una certa stabilità per circa undici mesi, adesso, invece, sono sempre più le cittadine nei Territori in cui si sta estendendo una radicalizzazione da parte di diversi gruppi terroristi”. L’analista spiega che la chiusura delle frontiere dopo il 7 ottobre ha incrementato un’enorme disoccupazione e crisi economica in Cisgiordania dove, fino ad allora, il 30 per cento dell’economia dipendeva dal sostegno dei 175.000 operai palestinesi che attraversavano tutti i giorni il confine per lavorare in Israele: molti di loro, disoccupati da quasi un anno, si sono dati alla criminalità e al terrorismo. Tanto che da mesi l’Idf e lo Shin Bet incoraggiano il governo a riaprire i confini.