Oltre le cautele
La pace è finta, la guerra è vera (e Kyiv la fa a modo suo)
Il modo migliore per rilanciare l’aiuto militare all’Ucraina ora è comprare armi dai produttori ucraini, dice il ministro degli Esteri ucraino. L'occidente sembra scegliere lo stallo e Kyiv cambia parole e metodo per non restare impantanata nelle cautele macchinose degli alleati
“Procrastinare non porta consenso”, ha detto ieri l’ex premier Mario Draghi: parlava dell’Unione europea e delle riforme, ma vale anche per il sostegno occidentale alla difesa ucraina, che è fatto di ritardi e di rimandi che hanno aumentato il costo umano sostenuto dagli ucraini (e non dagli alleati), hanno rallentato i rifornimenti delle armi utili alla difesa e anche le regole del loro utilizzo e hanno trasformato la vittoria a tutti i costi in una pace a tutti i costi. Il neoministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha, ha cercato di dare un impulso nuovo a un dibattito che si sta arenando – come era già accaduto in passato quando si decise di inviare carri armati e jet – sulla possibilità di usare le armi occidentali contro obiettivi militari in territorio russo: “Il modo migliore per rilanciare l’aiuto militare all’Ucraina ora è comprare armi per i combattenti ucraini dai produttori ucraini. La nostra industria della difesa cresce a ritmo rapido e può produrre di più con maggiori investimenti, ed è pure più economico e più veloce per i nostri alleati”. Sui ritmi dell’industria bellica europea è meglio soprassedere, ma Kyiv non si può permettere troppi ritardi e sa che le armi di propria produzione possono essere utilizzate senza i vincoli previsti per quelle della Nato: è un modo per disincagliarsi da un dibattito che dipende dalla decisione americana – che non arriva, e anzi continuano ad ammonticchiarsi ragioni deboli per giustificare questo diniego – ma che in Europa ha raggiunto abissi piuttosto deprimenti sul ruolo di ogni paese nella difesa ucraina. Intanto gli aerei russi sconfinano con sempre maggiore frequenza nei cieli europei, ma evidentemente la minaccia continua a sembrare remota – o un problema che riguarda solo gli ucraini.
Di pari passo, sempre nell’occidente affaticato dalla guerra ormai da un anno, è ripartita la discussione sull’accelerare la pace – una discussione che ha sempre avuto a che fare con il grado di compromesso accettabile da Kyiv e non con quello della Russia. Volodymyr Zelensky parla di un “piano per la vittoria”, gli altri sperano soltanto che il conflitto finisca presto. Anche in questo caso ci sono molte strumentalizzazioni, come sta accadendo in queste ore con l’intervista del cancelliere Olaf Scholz che ha detto di essere d’accordo con Kyiv sul fatto che a una futura conferenza di pace dovrà essere presente anche la Russia. Il punto non è il fatto che i russi siano presenti a un eventuale tavolo di pace, ma è sui termini di questa inclusione che gli approcci sono diversi, o almeno si ravvedono continui scivolamenti da parte degli alleati occidentali. Scholz è sicuramente in una posizione di debolezza in questo momento: le elezioni europee di inizio giugno sono andate male e quelle regionali di una settimana fa ancora peggio – catastrofiche – visto che si sono affermati due partiti, di estrema destra e di estrema sinistra, contrari al sostegno all’Ucraina e anche alla stessa Nato. Se si guardano i sondaggi sulla popolarità dell’aiuto a Kyiv tra i tedeschi non si ravvedono grandi scossoni e sia il principale partito di destra, la Cdu, sia i Verdi che fanno parte della coalizione di governo con Scholz non danno segnali di cambiamento. La debolezza politica non è per forza debolezza nella determinazione a difendere l’Ucraina dall’aggressione russa, ma nei dibattiti politici una guerra che si protrae non è mai un punto di vantaggio. Lo si vede bene anche nella campagna elettorale americana – Zelensky presenterà il suo “piano per la vittoria” al presidente Joe Biden e ai due candidati alla Casa Bianca, Kamala Harris e Donald Trump – dove l’umore degli americani è si un po’ meno agguerrito nella difesa dell’Ucraina ma non tanto pronto alla resa come sono, per dire, i trumpiani (Trump si è persino detto offeso del fatto che Vladimir Putin abbia detto che bisogna sostenere Harris a novembre: a furia di trollaggi, i troll non si capiscono più tra di loro).
A Kyiv però questo clima disfattista genera insofferenza: non c’è tempo e le risorse sono scarse. Per questo da un po’ di tempo gli ucraini hanno cambiato le parole e anche il modo di fare la guerra, come dimostrano anche le parole del ministro Sybiha. L’utilizzo delle armi fornite dagli occidentali è diventato molto macchinoso, le cautele richieste dagli alleati costringono i soldati a controlli e avvisi continui, che inficiano la rapidità delle operazioni e la loro efficacia. Quella che sembrava una domanda retorica – gli alleati vogliono davvero che l’Ucraina vinca o temono una sconfitta di Putin? – sta diventando un’ennesima restrizione sul campo di battaglia, quasi che l’immobilismo fosse non un esito di due anni e mezzo di guerra, ma una scelta, come ha lasciato intendere anche la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, quando ha detto che uno spazio per le trattative si trova quando c’è uno stallo tra le forze in campo. E’ anche per questo che gli ucraini chiedono di investire sulle armi che si producono da soli e insistono sul fatto di essere diventati molto più ingegnosi nel modo in cui si difendono e fanno le loro controffensive. Fino alla primavera si creava una grande attesa su queste operazioni, ora invece si prediligono le sorprese – che poi erano anche quelle che avevano determinato il successo a Kharkiv e a Kherson.
L’Ucraina ha bisogno delle armi occidentali, ma ha anche bisogno di fiducia e di un allineamento totale sull’obiettivo finale. In questa fase di insofferenza e di continui rimandi, l’unico modo per influire sulle dinamiche dei colloqui e dei negoziati è cambiare quel che avviene sul campo di battaglia – con un po’ di autonoma autogestione, quando necessario, cioè sempre più spesso.