Foto Epa, via Ansa

reportage

In un pub di St. Louis, l'irriverente Harris strappa applausi, il confuso Trump risate

Micol Flammini

Il dibattito di Philadelphia visto dal Missouri, lì dove nel 2016 il repubblicano ribaltò la sua campagna elettorale che lo condusse alla Casa Bianca. In città c’è un manuale per decifrare i dibattiti. Oggi dice: “No plans”

St. Louis (Missouri). Si deve parlare, commentare, applaudire. Ai dibattiti il pubblico si deve far sentire e questa è una regola che poche città conoscono bene come St. Louis. In assenza di un palco sotto cui piazzarsi, la città del Missouri si è data da fare: se i due candidati alla Casa Bianca, Kamala Harris e Donald Trump, non possono – o non vogliono – sentire il pubblico, il pubblico deve sentire i due candidati e avere l’occasione di comportarsi come se fossero lì, davanti a lui. Non sono più i tempi della Washington University, l’Università della città che ha accolto anni di dibattiti, che ha visto anche Trump duellare e scontrarsi contro Hillary Clinton: loro, gli abitanti di St Louis, erano lì, a fare il pubblico, tanto vicini da toccare con mano i due sfidanti e il trumpismo che nello stato del Missouri vinse con il 57 per cento, ma nella città di St Louis arrivò a uno svilito 15 per cento.

Non era semplice per un’istituzione non grande riuscire a ospitare un dibattito presidenziale, ma una volta raggiunto il traguardo, la Washington University se l’è tenuto stretto, fino alla scelta subita di portare i due candidati via dal pubblico. La decisione è stata accettata a malapena e se St. Louis deve proprio accontentarsi di vedere un dibattito in televisione, si organizza per urlare, fischiare e applaudire, come se i due fossero presenti.

In un pub irlandese non lontano dal centro, lo Smart Army, un sindacato che promette ai lavoratori e alla politica di trovare “soluzioni intelligenti”, ha organizzato una serata. I televisori sono connessi all’Abc, l’emittente che trasmette il dibattito, la gente continua ad arrivare, alcuni hanno addosso la maglietta con la scritta “Smart Army”. Prendono i loro posti, ordinano, bevono birra con whiskey dentro. Un brindisi dopo l’altro, tra uno sguardo all’orologio e uno alla televisione. Uno di loro, Jeff, non ha una maglietta di riconoscimento da mostrare, ma rivendica con orgoglio che il suo sindacato non è interno ai democratici, dispensa aiuto e consigli al partito che ha la missione di battere Donald Trump: “Harris non deve farsi mangiare, oggi è la prova generale”, dice. “Lui sarà aggressivo, lei non può farsi buttare giù. Ha un vantaggio: il vecchio adesso è Trump, ha studiato per anni per sfidare Biden, vorrebbe che ci fosse il presidente, ha imparato le battute su di lui, con Harris è impreparato”. Jeff non sa ancora che Trump durante il dibattito sembrerà un disco rotto, non sa neppure che la cantante scatena stadi Taylor Swift a fine serata darà il suo appoggio, quello più desiderato della campagna elettorale, a Kamala “la guerriera”. Jeff per ora conta quanta gente è riuscito a portare in un pub del Missouri e sembra soddisfatto, al resto però deve pensarci Kamala Harris.

Il dibattito inizia, le magliette dello Smart Army si confondono tra quelle degli altri avventori, ognuno in questo locale ha il suo scopo, che sia il dibattito o la birra, chi è dentro è costretto a guardare i televisori, sono ovunque e se il volume non è abbastanza alto, i sottotitoli sono a caratteri cubitali. Oggi St. Louis non può perdersi il primo confronto di una campagna elettorale appena iniziata, accelerata prima ancora di entrare nel vivo, scombussolata da un candidato costretto al passo indietro. Nessuno vuole parlare di Biden. Gli uomini dello Smart Army sono molto amichevoli, ma del presidente attuale preferiscono non parlare, meglio pensare al dibattito, quel che è stato con Biden è già passato, adesso c’è una sfida nuova e bisogna applaudire, fischiare, commentare. E’ una partita, non un dibattito, le migliori risposte di Harris vengono festeggiate, acclamate, sembra di vedere un incontro di boxe, con un intero pub a suggerire strategie alla candidata democratica, ma lei non ne ha bisogno. Parla, batte, controbatte, è sfrontata quanto basta. Trump non fa che lamentarsi: imputa, non risolve, rimprovera, non propone. Sembra un disco rotto di fronte a una città agguerrita che attende ogni suo errore, che batte le mani e incoraggia, a ogni risposta di Harris sembra sentirsi più sicura. Quando Trump prende la parola, il pubblico reagisce con una risata debordante. Qui a St Louis Trump fa ridere a crepapelle. Ha uno stuolo di imitatori che ripete divertito il suo modo di pronunciare “terror”, “terrah”. Il pubblico ripete ininterrottamente “many many many”, l’unità di misura che Trump usa per affermare di essere apprezzato da molti, per dire che ha fatto tanto, per raccontare che in tanti gli chiedono perché Biden e Harris spendono i soldi per l’Ucraina e non per i lavoratori americani o per riferire che a Springfield, Ohio, gli immigrati divorano cani.

St. Louis è rumorosa, partecipativa, tace un attimo distratta quando l’ex presidente racconta che Viktor Orbán, il premier ungherese, gli ha fatto sapere che l’Europa sente la sua mancanza e non è vero che i leader europei lo ritengono una disgrazia: nel pub nessuno sembra sapere chi sia Orbán. Trump ripete la parola “immigrazione” ogni volta che si sente in difficoltà e non riesce a ribattere quando Harris gli fa notare che con la sua ossessione per gli uomini forti finirebbe per accontentare Vladimir Putin, senza rendersi conto che il capo del Cremlino è pronto a “mangiarselo a colazione”. La risata pare non finire più. L’irriverenza di Harris convince, quasi nessuno sembrava crederci prima che il dibattito iniziasse, prima che il pub si tramutasse in stadio, con birre e anelli di cipolla che continuano a passare da un tavolo all’altro, mentre lo Smart Army e politici del posto ricoprono la candidata di complimenti come se fossero lì, a due passi, sul palco di una sala istituzionale della Washington University.

Se Harris avesse avuto St. Louis sotto il palco, avrebbe forse sentito quello che da martedì notte è lo slogan dei democratici locali ed è nato nel pub, dal grido “no plans” con cui una voce riassume l’incapacità di Trump di fare programmi elettorali diversi dalle accuse ai democratici. “No plans” diventa un grido, a cui a distanza, il candidato repubblicano risponde elencando complimenti ricevuti da cittadini non meglio specificati. “No plans” si grida ogni volta che Trump non ha una risposta. “No plans” esce tra una risata e l’altra, tra un applauso e un fischio. Questo è il punto e St Louis che di dibattiti se ne intende lo ha afferrato al volo: Trump è un disco rotto, un manuale invecchiato rispetto a otto anni fa e la città che lo ha visto dal vivo  battersi contro Clinton lo ha capito, se la ride e ripete “no plans”. Il manuale del buon dibattito di St Louis prevede che non bisogna mai invaghirsi delle buone partenze, bisogna badare ai programmi. “Siamo un sindacato”, dice Collin, anche lui un soldato smart ma senza maglietta identificativa, “sappiamo che bisogna essere concreti per vincere, Harris lo è. Bisogna parlare di lavoro, di soldi, di ospedale, di istruzione. Siamo un paese diviso, si bada alla concretezza, la politica estera, per esempio, non conta, non trascina”, e infatti l’unico momento di sonnolenza ha intorpidito il pub mentre i due candidati parlavano di Ucraina, neppure le domande su Israele hanno infiammato: alla parola “medio oriente” l’attenzione era altrove. 

E’ stata una buona partenza per Kamala Harris, Jeff se ne rallegra, prima del dibattito non ne era sicuro. Sembra quasi che per i democratici ci siano interi pub da conquistare per arrivare alla vittoria anche fuori St. Louis, città democratica in uno stato repubblicano. “Harris è andata forte, ma è l’inizio – dice Collin – io non sono mai ottimista, sono del Minnesota”.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)