I detriti della scuola di Nuseirat, nella Striscia di Gaza (foto Ansa)

medio oriente

Un raid israeliano uccide sei funzionari dell'Unrwa. Armi americane per l'Egitto

Luca Gambardella

Bombardata una scuola nel campo profughi di Nuseirat. Per l'Idf tre dei funzionari Onu uccisi erano di Hamas. Intanto un altro generale si dimette per gli errori commessi il 7 ottobre. Blinken sblocca altri aiuti militari all'Egitto

Mentre gli Stati Uniti tentano di sbloccare le trattative per un cessate il fuoco tra Hamas e Israele, giovedì un attacco aereo dell’Idf ha colpito una scuola nel campo profughi di Nuseirat, al centro della Striscia di Gaza, uccidendo 18 persone, tra cui sei funzionari dell’Unrwa. Mai dall’inizio del conflitto erano stati uccisi così tanti dipendenti dell’agenzia delle Nazioni Unite in un singolo attacco. Come già successo in passato, l’Onu e Israele hanno dato versioni dei fatti  contrastanti. Il primo ha dichiarato che l’edificio colpito faceva da rifugio ai profughi palestinesi, mentre il secondo ha ribattuto che nella scuola c’erano dei “terroristi che si nascondevano all’interno di un centro di comando di Hamas”.

Nell’impossibilità di fare verifiche sul campo sulla dinamica degli eventi, il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha detto che l’assenza di responsabilità nell’uccisione di membri dello  staff delle Nazioni Unite a Gaza “è totalmente inaccettabile”. Le forze armate israeliane però hanno risposto dicendo di “avere preso una serie di misure per ridurre il numero delle vittime civili” e che tre dei funzionari dell’Onu uccisi erano membri di Hamas.

Ma oltre alla gestione della guerra, le forze armate dello stato ebraico continuano a fare i conti con le inchieste e gli errori fatti prima del 7 ottobre. Dopo le dimissioni presentate ad aprile del capo dell’intelligence militare, generale Aharon Haliva, e quelle del generale Avi Rosenfeld, comandante della divisione responsabile della Striscia di Gaza, giovedì sono arrivate anche quelle del capo dell’Unità 8200, un corpo di élite dell’Idf. “Ho fallito, non ho capito le necessità che richiede la gestione di una realtà unica come è la frontiera di Gaza”, ha scritto il generale Yossi Sariel nella lettera con cui ha annunciato il suo passo indietro.        

Intanto i negoziati per una tregua restano in una fase di stallo. Sebbene ogni tentativo di ridare slancio alle trattative sembri ancora inconcludente, la guerra a Gaza è riuscita paradossalmente a dare ristoro a chi, fino a un anno fa, sembrava invece sull’orlo della bancarotta. L’Egitto di Abdel Fattah al Sisi ha ricevuto una notizia molto positiva mercoledì sera, quando il dipartimento di stato americano ha notificato al Congresso la sua decisione di sbloccare 320 milioni di dollari in aiuti militari destinati al Cairo. La fornitura è condizionata al rispetto dei diritti umani da parte del regime egiziano, un caveat che sembra piuttosto lasco, data la naturale inclinazione di Sisi a reprimere le libertà individuali e collettive ininterrottamente da quando è diventato presidente. Gli Stati Uniti però sono pronti a mettere da parte le critiche al regime sul fronte dei diritti umani perché hanno un’enorme necessità di avere l’Egitto al proprio fianco al tavolo dei negoziati su Gaza, come ha confermato mercoledì un portavoce del dipartimento di stato: “La decisione è importante per fare avanzare la pace nella regione” e “soprattutto per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, riportare gli ostaggi a casa e aumentare l’assistenza umanitaria per i palestinesi”. Della somma accordata, 95 milioni di dollari necessitano di una dichiarazione ufficiale firmata da Antony Blinken in cui si certifica che l’Egitto ha compiuto passi avanti “chiari e concreti” sul fronte dei diritti umani. La condizionalità degli aiuti militari americani concessi al Cairo non sembra essere poi tanto rigorosa, se si pensa che secondo i dati raccolti da un think tank con sede a Washington, il Middle East Democracy Center, nell’ultimo anno il regime egiziano ha sì rilasciato 979 prigionieri politici, ma ne ha detenuti altri 2.278 nello stesso periodo. 

Si tratta di un cambio di rotta notevole per gli Stati Uniti che, durante gli ultimi tre anni di Amministrazione Biden, ha bloccato una somma compresa fra gli 85 e i 130 milioni di dollari per violazioni dei diritti umani. Per certi versi, e al netto dei danni enormi causati dagli houthi nel Mar Rosso, finora la guerra a Gaza è stata una manna per Sisi, che fino a un anno fa si trovava alla guida di uno stato sull’orlo della bancarotta. Poi, visto il suo ruolo cruciale di mediatore fra Israele e Hamas, ognuna delle richieste avanzate dai suoi creditori e che fino a pochi mesi fa sembravano essenziali per concedergli nuova liquidità, sono venute meno. Il Golfo esigeva che Sisi ponesse un argine all’accentramento dell’economia egiziana nelle mani dell’esercito; poi, negli ultimi mesi, gli Emirati Arabi Uniti hanno versato 35 miliardi di dollari e l’Arabia Saudita ne ha promessi altri 100 in forma di scambio di beni e servizi. Anche il Fondo monetario internazionale chiedeva riforme per liberalizzare l’economia, ma improvvisamente la condizione per avallare un nuovo prestito è stata congelata e a marzo è arrivato l’accordo per versare altri 9 miliardi di dollari nelle casse del Cairo, a cui si devono sommare altri 700 milioni in arrivo dalla Banca mondiale. 

In cambio ci si attende ora passi avanti sostanziali nelle trattative sul cessate il fuoco a Gaza, sebbene dal Cairo non giungano notizie su un addolcimento della sua posizione a proposito di quello che finora è sempre stato un punto fermo di Sisi: la ritirata delle forze israeliane dal corridoio Filadelfi. Gli americani sperano che il nuovo pacchetto di aiuti militari possa essere un incentivo per il regime egiziano.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.