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Scenari

Governo all'estremo. Un girotondo di opinioni

Mauro Zanon e Daniel Mosseri

Dove si pone il limite tra tentativo di normalizzare i partiti estremi e piazzare cordoni sanitari più solidi che mai? Le esperienze di Francia e Germania, tra veti, dialoghi e ambizioni

Quando Emmanuel Macron ha indetto le elezioni parlamentari, in seguito alla sconfitta alle europee, erano tutti disperatamente certi che l’estrema destra sarebbe andata al governo: un tabù violato dalle conseguenze perniciose. Al voto poi il Rassemblement national è stato sì il primo partito, ma la coalizione vittoriosa è stata quella della sinistra (estrema e moderata), così è iniziato un negoziato politico durato tutta l’estate (complici i Giochi olimpici) che ha portato alla nomina come premier Michel Barnier, un gollista, rappresentante di un partito dal consenso scarso. Disperazione passata? Non proprio, visto che comunque Barnier sarà costretto a compromessi paralizzanti.

Ma insomma, più rassicurante di un governo lepenista. Però la nomina di Barnier ha aperto un altro dibattito, legato alla rappresentatività e al volere degli elettori: alle prossime elezioni, i partiti estremisti saranno depotenziati o, sempre esclusi e non rappresentati, finiranno per radicalizzarsi ancora di più? La questione si è animata perché quasi in contemporanea alle elezioni regionali in Germania, Turingia e Sassonia, di nuovo i partiti estremi hanno avuto un gran successo, ma il loro accesso a posti di governi continua a essere sbarrato. Il cordone sanitario è servito a depotenziarli? No, ma resta la convinzione che l’AfD, estrema destra xenofoba, non possa essere normalizzata, come invece tendono a fare, seppure con una buona dose di cosmesi, i lepenisti francesi. L’effetto a lungo termine di questi cordoni sanitari è tutto da valutare, intanto abbiamo chiesto a qualche esperto una loro analisi.


Il superamento impossibile

Nel 2017, la vittoria di Emmanuel Macron è stata costruita su una promessa: risolvere i problemi strutturali della società francese, superando i conflitti politici che, fin dai tempi della Rivoluzione francese, avevano strutturato, a volte artificialmente, la vita politica. All’epoca, l’attenzione era rivolta soprattutto al diritto del lavoro e alla competitività delle imprese. L’operazione politica del “superamento”, che consiste nel riunire i migliori elementi della destra e della sinistra, deve essere compresa alla luce di una filosofia politica più profonda, quella del Neutro – nel senso inteso dal semiologo Roland Barthes, di schivare, parare, sospendere il conflitto. In questo senso, il macronismo originario non è un’ideologia: non è strutturato da un sistema di pensiero o da una colonna vertebrale politica, è un soluzionismo politico che cerca fondamentalmente di evitare lo scontro.

Questa visione profondamente a-democratica della politica, che nega e ripudia l’esistenza stessa degli antagonismi, plasma profondamente il software del macronismo. E’ in tal senso che dobbiamo comprendere la sua tentazione, ampiamente o parzialmente inconscia, di stringere legami con l’estrema destra. Se le principali questioni che preoccupano i francesi sono l’insicurezza e l’immigrazione, come gran parte dei media continua a dirci ogni giorno, non dovremmo in qualche modo risolvere il problema attingendo al corpus ideologico, alla retorica e alle soluzioni propugnate dal Rassemblement national? Dopo aver fatto saltare la divisione destra/sinistra, non è forse giunto il momento di far saltare anche l’ultima diga, quella che storicamente ha separato l’estrema destra dal resto della politica francese? Questo ragionamento è a mio avviso il segno del collasso intellettuale e morale di una parte della nostra élite al potere. Ci siamo già trovati in questa situazione. Negli anni Trenta, il leader socialista Léon Blum aveva perfettamente individuato la ragione del crollo generale della società francese: “La ragione profonda è che questa società aveva un’armatura borghese, e questa armatura ha ceduto”, scrisse nel suo “À l’échelle humaine”.

Raphël Llorca, condirettore dell’Observatoire, “Marques, imaginaires de consommation et politique” alla Fondation Jean-Jaurès e autore di “Les nouveaux masques de l’extrême droite. La radicalité à l’ère Netflix”


L’equivoco a sinistra

Alternative für Deutschland fu fondata nel 2013 come forza populista e antieuropea che metteva in discussione il sistema democratico. All’epoca la Cdu di Angela Merkel, candidato “naturale” per la sua collocazione politica a collaborare con l’AfD, tagliò i ponti con il gruppo sovranista. Una scelta subito imitata dal resto del sistema politico. Il “Brandmauer”, il muro tagliafuoco, il cordone sanitario steso attorno all’AfD, nasce così: quale applicazione pratica del postulato di Franz Josef Strauss, cavallo di razza dei cristiano-sociali (Csu) e per molti anni presidente della Baviera: nessun partito a destra dell’Unione Cdu/Csu. Nel frattempo, di leader in leader, l’AfD si radicalizza sempre di più.

Sulla base della crescita di un partito oggi fra i più estremisti del panorama sovranista in Europa e capace di esprimere leader quali l’inquietante Björn Höcke al comando in Turingia, viene da chiedersi se la scelta del Brandmauer, con il corollario che al gruppo dell’AfD non è mai stato permesso di eleggere un proprio vicepresidente del Bundestag o che con i rappresentanti di quel partito non si prende neppure l’ascensore nei palazzi berlinesi della politica, sia stata la scelta più saggia. La risposta è sì: la Cdu è sempre stata molto pro Nato, pro Europa, pro integrazione con l’occidente, ossia l’esatto contrario della piattaforma antieuropeista dell’AfD.

E la strategia dell’isolamento stava funzionando. Con due limiti però. Il primo: sebbene nessuno dialoghi con l’AfD a livello centrale o statale – la collaborazione per adesso funziona solo a livello di piccoli comuni – è comunque l’AfD a definire l’agenda della politica tant’è che tutti i partiti parlano di profughi e migranti. Il secondo: la crisi dei rifugiati, ossia la scelta di Angela Merkel nell’estate del 2015 di aprire la porta della Germania a un milione di profughi soprattutto siriani in fuga dalle mattanze nei propri paesi, ha alimentato l’AfD che da allora continua a crescere. E domani alla Cdu non resta che dialogare con il Bsw, il partito di Sahra Wagenknecht. Sebbene il suo programma assomigli a quello dell’AfD, nessuno pensa che la signora Wagenknecht, uscita dalla Linke, voglia rovesciare il sistema democratico. Di Björn Höcke lo pensano tutti.

Aiko Wagner, politologo della Freie Universität Berlin


Il dialogo interrotto a sinistra

Bisogna anzitutto distinguere l’estrema destra istituzionale dal Nuovo fronte popolare (Nfp). La prima, formata dal Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen e Jordan Bardella e dal piccolo partito di Éric Ciotti, Unione dei diritti per la Repubblica, forma un gruppo omogeneo dal punto di vista ideologico. Nfp, invece, è composto non solo dalla radicalità della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, ma anche da un Partito socialista dove per la maggior parte i suoi esponenti sono riformisti e ripudiano questa radicalità.

Detto questo, l’istituzionalizzazione di Rn è tale che oggi le passerelle tra l’attuale governo e il partito di Le Pen sono chiare e nette. Il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, non può più muoversi senza dialogare con Rn. Tuttavia, il partito lepenista è minoritario all’Assemblea nazionale: da solo non ha il potere di far cadere il governo. Potrà farlo solo votando una mozione di censura assieme a Nfp. Oggi, Macron mi sembra comunque un leader alla deriva, privo di visione politica a lungo termine, che vive alla giornata e si trova costretto a dare delle garanzie a Rn. La nomina di Michel Barnier a Matignon è stata possibile solo grazie al placet di Marine Le Pen, che ha deciso di dare una chance all’ex capo negoziatore dell’Ue per la Brexit. Barnier ha posizioni simili a Rn sull’immigrazione: c’è già, dunque, un’armonia ideologica tra la formazione sovranista e il nuovo capo dell’esecutivo. Macron è il principale responsabile della situazione attuale, ma la gauche, e in particolare la France insoumise, non è esente da colpe.

Mettendo il veto alla nomina a Matignon di Bernard Cazeneuve, ex ministro dell’Interno socialista e già premier sotto la presidenza di François Hollande, ha preferito la destra sostenuta dall’estrema destra alla sinistra. Nel comportamento della France insoumise, c’è una radicalità che fa sì che l’odio verso la sinistra riformista sia più forte dell’avvicinamento tra la destra e l’estrema destra cui stiamo assistendo in Francia.

Michel Wieviorka, sociologo e ex direttore del Centro di analisi e di intervento sociologico (Cadis) all’École des Hautes Études en Sciences Sociales


Comunque in ostaggio

Emmanuel Macron, messo alle strette, ha nominato un nuovo primo ministro la cui sopravvivenza, assieme a quella del governo, dipenderà dal sostegno del Rassemblement national di Marine Le Pen, un partito il cui marchio di fabbrica è il rifiuto della vibrante diversità multiculturale della Francia. Se Le Pen ordinasse al suo blocco parlamentare di ritirare il suo appoggio provvisorio e di votare la sfiducia contro la nuova amministrazione di Barnier, un esponente conservatore ed ex ministro degli Esteri, il governo crollerebbe immediatamente. (Tre quarti dei francesi intervistati dopo la nomina di Barnier hanno dichiarato di aspettarsi che il governo cada presto).

Per la Francia, ciò significa che un partito con un messaggio xenofobo di fondo ora esercita ciò che equivale a un veto sul governo e sulle sue decisioni. Si tratta di una svolta drammatica. Da tempo Macron ritiene che la sua missione più urgente, fondamentale per la sua stessa eredità, sia quella di bloccare l’ascesa dell’estrema destra. Sebbene non abbia consegnato il potere in toto al Rassemblement national, il nuovo accordo propende per la condivisione del potere. (…) Macron è stato l’istigatore di questo patto faustiano, ma la colpa è anche dei cosiddetti moderati francesi di destra e di sinistra. Se fossero stati disposti a scendere a compromessi dopo le elezioni di due mesi fa, avrebbero potuto unirsi al blocco di Macron in una coalizione ampiamente centrista dietro a un nuovo governo; questo è ciò che il presidente avrebbe preferito. Ognuno di loro ha rifiutato.

Con un Parlamento balcanizzato, Macron è stato costretto a scegliere un primo ministro sostenuto da una sola parte, insieme ai suoi alleati più estremisti. Secondo i media francesi, il presidente ha chiesto a Marine Le Pen di garantire che non avrebbe immediatamente indetto un voto di sfiducia per rovesciare il nuovo governo. Ma il suo Rn ha fatto sapere che terrà il governo in ostaggio del suo programma di linea dura – tra cui, molto probabilmente, una stretta draconiana sull’immigrazione. Le Pen, avendo ottenuto il ruolo di kingmaker nella selezione del nuovo governo di Macron, e ora come garante della sua sopravvivenza, ha acquisito una credenziale che brama: la rispettabilità. (…) Ora, Macron ha permesso non solo una crepa nel muro di fuoco, ma una breccia sbadigliante, causata dalla sua decisione impulsiva di rimescolare il mazzo politico francese quando non era necessario. Il modo in cui Le Pen utilizzerà questa leva – facendo pressione per il programma populista e di destra del suo partito o attenendosi al centro – diventerà più chiaro nei prossimi mesi. Ciò che è straordinario è che, dopo anni ai margini, l’estrema destra francese ha ora una presa sulle politiche del governo e sul futuro della nazione.

Lee Hockstader, editorialista del Washington Post con sede a Parigi (Copyright Washington Post)


Il senso di Michel Barnier

Emmanuel Macron ha dato l’incarico di governo al gollista Michel Barnier dopo un tira e molla che da fine agosto ha bruciato vari nomi come Bernard Cazeneuve, Xavier Bertrand o Laurent Bergé. La sinistra che era arrivata in testa alle elezioni è rimasta compatta intorno a Lucie Castets, e la direzione del Partito socialista ha votato contro l’ipotesi Cazeneuve, già membro del partito. Questa fumata nera ha quindi spinto il presidente a ricercare una forma di apertura a destra, con un nome in grado di federare sia i Républicains sia i marconisti, ma anche di ricevere una specie di nulla osta da parte di Marine Le Pen, tirata in ballo nelle consultazioni.

La sinistra, soprattutto nella sua componente moderata, si trova di fronte a un dilemma: la compattezza dimostrata del Nuovo fronte popolare appare come una forza per le future elezioni. Ma questa chiusura rischia di spingere Barnier nelle grinfie di Le Pen, rafforzando una logica di un’alternativa a destra che apre al Rassemblement national. Con i negoziati per Barnier, Macron ha scelto di integrare il Rassemblement national nel gioco politico, un concetto che aveva ribadito quando criticava l’esclusione del Rn dalle responsabilità in Parlamento. L’idea di integrare il Rn nelle istituzioni per portarlo a una maggiore moderazione corrisponde anche alle velleità di esercizio del potere da parte del partito di Le Pen, con Bardella che sembrava abbozzare un’evoluzione verso una forma di neogollismo conservatore.

Però le elezioni di luglio scorso avevano dato un messaggio diverso, quando la desistenza fra i due turni vedeva la sinistra e il centro-destra sostenersi a vicenda per battere la destra nazionalista. Tra l’altro il partito di Barnier, i Républicains, ha mantenuto posizioni di non compromesso con il Rn, come ha dimostrato la marginalizzazione di Eric Ciotti che aveva invece scommesso sull’alleanza con i nazionalisti. Barnier, che fino a pochi giorni fa sembrava in pensione, si trova dunque a interpretare una partita delicatissima. Se l’abilissimo negoziatore della Brexit riuscirà a uscire dal pantano creato dalla dissoluzione, potrebbe anche diventare un potenziale candidato forte alle presidenziali, un destino che ha sempre accarezzato.

Jean-Pierre Darnis, professore ordinario all’Università della Costa Azzurra a Nizza, associate fellow alla Frs a Parigi. Insegna all’Università Luiss di Roma e ha appena pubblicato “Transalpini, le relazioni tra Francia e Italia e il rilancio del gioco europeo”

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