Distanze diplomatiche

I novecento metri cruciali per Taiwan su cui si muovono le relazioni tra Pechino e Washington

Giulia Pompili

Passeggiata  tra il palazzone grigio della rappresentanza di Taipei e il compound cinese di International Place. L’equilibrio di Harris, le accuse di Trump e i due volti di una potenziale crisi 

Washington, dalla nostra inviata. Il palazzo che ospita la rappresentanza diplomatica di Taiwan a Washington, su Wisconsin Avenue, è un grigio edificio che visto da fuori sembra un hotel dalle basse pretese. Il suo nome formale è “ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei negli Stati Uniti”: nessuna bandiera, nessun riferimento al nome formale di Taiwan, cioè Repubblica di Cina. Nel 1979, quando l’America ha stretto relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese di Mao Zedong, quella che era l’ambasciata della Repubblica di Cina è stata chiusa. Subito prima del riconoscimento di Pechino, Taipei ha però acquistato Twin Oaks, una magnifica tenuta in stile neocoloniale nel quartiere di Cleveland Park che un tempo aveva la funzione di residenza dell’ambasciatore di Taiwan, e dove oggi si tengono incontri formali e cerimonie.    Da quasi dieci anni, come simbolo del rafforzamento delle relazioni informali fra Washington e Taipei, è perfino tornata a essere esposta la bandiera rossa, blu e bianca di Taiwan e tre anni fa l’Amministrazione Biden ha eliminato alcune restrizioni che impedivano a funzionari di stato americani di recarsi nell’edificio.  

 

Politici e analisti occidentali osservano con attenzione le potenziali reazioni della Repubblica popolare cinese all’eventualità di un secondo mandato di Donald Trump come presidente o di una presidenza Kamala Harris. La competizione fra America e Cina nasconde un lato economico, ma anche un lato d’ideali, sistemico, legato a un ordine del mondo democratico attualmente sfidato dalla leadership dell’uomo forte Xi Jinping. E del resto, durante il dibattito dell’altra sera, Trump ha menzionato la Cina quasi in apertura, e poi ci è tornato molte volte, quasi sempre accusando i democratici di aver “venduto” l’economia americana a Pechino. Harris ha risposto sottolineando la fascinazione di Trump per Xi e per i suoi metodi autoritari, per esempio nel controllo draconiano dell’epidemia di Covid, senza mai entrare nei dettagli della sua visione delle relazioni con la Cina. Per Taiwan, l’isola che Pechino rivendica come proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata, chi entrerà alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre è ancor più cruciale – riguarda la difesa della democrazia taiwanese, della sua indipendenza di fatto, e l’eventualità, mai del tutto esclusa da Pechino, di una concreta invasione del suo territorio. 

 


Secondo una fonte del Foglio, che preferisce restare anonima perché non autorizzata a parlare della questione, Taiwan dovrebbe vedere confermate le rassicurazioni sull’ombrello di Difesa e diplomatico americano sia in caso di vittoria di Kamala Harris sia in caso di vittoria di Donald Trump. Una eventuale Amministrazione Harris per Taipei è però più prevedibile: la figura chiave della sua politica estera potrebbe essere quella di Philip H. Gordon, attualmente consigliere per la Sicurezza nazionale della vicepresidente. Gordon ha lavorato nelle Amministrazioni Obama e sulle relazioni con la Repubblica popolare cinese ha scritto un articolo nel 2020 su War on the Rocks, in cui ha spiegato che l’approccio aggressivo e disordinato di Trump contro la Cina è stato fallimentare, e ha proposto quattro pilastri per gestire la competizione con Pechino: rafforzare l’economia interna, rafforzare le relazioni con i paesi alleati, competere a livello economico e strategico ma allo stesso tempo mantenere aperti i  canali di dialogo su temi comuni come i cambiamenti climatici. Con Donald Trump, invece, Taiwan potrebbe essere in balìa dell’improvvisazione: “Nessuno sa da chi potrebbe essere composta la nuova squadra”, dice la fonte. Durante la sua Amministrazione, le relazioni con Taipei si erano consolidate grazie al viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Matt Pottinger, ma anche al suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e in una certa misura al segretario di stato Mike Pompeo. In un’intervista a Bloomberg a metà luglio, Trump ha accusato improvvisamente Taiwan di aver “rubato” i microchip americani e che l’isola “dovrebbe pagare per la sua difesa” da parte dell’America. Quell’intervista aveva fatto saltare sulla sedia praticamente tutti nel grigio palazzo di Wisconsin Avenue. C’è poi un’altra questione che riguarda l’immagine e la promozione di Taiwan a Washington: fino al dicembre dello scorso anno, a gestire direttamente i rapporti fra l’America e il governo di Taipei era Hsiao Bi-khim, chiamata la “gatta guerriera” (al contrario dei “lupi guerrieri” della diplomazia cinese). Hsiao era conosciuta da tutti, aveva cambiato molto della riconoscibilità politica di Taipei dentro ai corridoi del potere americano, tanto da essere stata definita dal New York Times “una degli ambasciatori più influenti di Washington che però non è un ambasciatore”. Alla fine dello scorso anno, però, William Lai ha scelto Hsiao come sua vicepresidente, e il posto da padrone di casa di Twin Oaks è passato ad Alexander Yui, diplomatico di carriera che secondo le chiacchiere raccolte dal Foglio non ha lo stesso slancio di Hsiao. 

 


Per Taiwan l’alleanza, anche se informale, con gli Stati Uniti è una garanzia di mantenimento dello status quo, e di deterrenza nel caso in cui Pechino decida di procedere con un’azione di forza contro l’isola. Secondo il Taiwan Relations Act  del 1979, Washington deve aiutare Taiwan alla   propria difesa ma il fatto che lo faccia fornendo materiali o entrando in guerra in sua difesa fa parte dell’“ambiguità strategica”, quella per cui non c’è una risposta certa alla domanda: interverranno? In più occasioni Biden ha detto che sarebbe pronto a intervenire, ma non è così scontato e per ora la modalità ambigua ha funzionato. Tutti i giochi di guerra e le simulazioni danno come sconfitta la Repubblica popolare in caso di intervento in difesa di Taiwan da parte  degli americani, e l’opzione più credibile, più che l’invasione via mare, resta quella del blocco navale attorno all’isola e del continuo isolamento diplomatico di Taipei che porti l’opinione pubblica del paese, sul lunghissimo periodo, a decidere per una soluzione politica (anche quest’ultima opzione è considerata molto poco credibile a Taiwan). Nel frattempo, però, da più di un anno il Pentagono fa addestrare per un eventuale conflitto a Taiwan la stessa unità delle Forze speciali della Marina che ha eliminato il terrorista Bin Laden. “L’addestramento segreto”, ha scritto ieri sul Financial Times l’autore dello scoop, Demetri Sevastopulo, “sottolinea l’aumentata attenzione degli Stati Uniti a rafforzare la deterrenza per indurre la Cina a pensarci due volte prima di attaccare Taiwan, intensificando al contempo i preparativi nel caso in cui il presidente Xi ordini all’Esercito popolare di liberazione di attaccare o invadere l’isola”. Parlando lo scorso fine settimana a un evento del Financial Times, il direttore della Cia Bill Burns ha detto che “i fondi che la Cia ha destinato alla Cina sono triplicati negli ultimi tre anni, raggiungendo il 20 per cento del bilancio dell’agenzia, e che nell’ultimo anno si è recato due volte in Cina per colloqui volti a ‘evitare inutili malintesi’”.

 


Perché quello fra Washington e Pechino resta un equilibrio particolarmente delicato che si muove lungo novecento metri: sono quelli che si percorrono dalla  rappresentanza taiwanese di Wisconsin Avenue al compound del 3505 di International Place, sede dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Washington.  Il viaggio di fine agosto a Pechino del consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, è servito a riaprire un dialogo fra America e Cina sempre in bilico. Diversi giornali americani, sollecitati da fonti interne all’Amministrazione, hanno parlato di colloqui particolarmente importanti per evitare il peggio fra i due paesi – in un momento in cui Washington accusa la Cina di sostenere anche materialmente la guerra della Russia di Putin contro l’Ucraina. Sullivan ha parlato di “diplomazia intensiva”: “Non risolve tutte le questioni”, ha detto in un briefing con la stampa, “non significa che saremo d’accordo su tutto, ma significa che possiamo migliorare la comprensione, possiamo chiarire le percezioni errate, possiamo ridurre il rischio di errori di calcolo e possiamo identificare aree di lavoro”. Secondo un’altra fonte ascoltata dal Foglio, la diplomazia di Sullivan serve a preparare il terreno per una eventuale nuova Amministrazione democratica, fatta di competizione ma soprattutto di dialogo costante: “Questo rassicura la Cina più di ogni altra cosa, perché è come se l’America dicesse: vi riconosciamo come seconda potenza globale”. 

 

D’altra parte, la sfida cinese al Congresso è considerata prioritaria in modo perfettamente bipartisan. L’altro ieri, al Congresso, è iniziata la cosiddetta “China week”, una settimana di voto su ventotto leggi – da quella sullo spionaggio a quella sulle interferenze, da alcune misure sul commercio ai veicoli elettrici fino alla protezione del settore agricolo “dagli avversari stranieri” – che ha  come ultimo target la Cina e voluta nello specifico dalla maggioranza repubblicana: il leader dei repubblicani della Camera, Steve Scalise, ha detto qualche giorno fa alla Fox News che mettere insieme tutte le proposte di legge serve a far vedere l’azione di forza contro Pechino. E l’altro ieri è stata approvata con una larga maggioranza di 413 voti la legge sulla “certificazione dell’Ufficio economico e commerciale di Hong Kong”, che chiede al presidente americano di eliminare i privilegi concessi agli uffici di rappresentanza dell’ex colonia inglese perché “Hong Kong non gode più di un alto grado di autonomia dalla Repubblica popolare cinese”. Subito dopo, il portavoce dell’ambasciata cinese a Washington ha pubblicato una dichiarazione sul sito: “Alcuni individui americani stanno manipolando le questioni relative a Hong Kong, inventando leggi sinistre e reprimendo lo sviluppo di Hong Kong per scopi politici. La Cina deplora con forza e si oppone fermamente a tutto ciò e ha presentato solenni rimostranze agli Stati Uniti”. Alla politica delle minacce, però, anche Pechino fa corrispondere sempre il dialogo, forse non a caso: sempre l’altro ieri il comandante per l’Indo-Pacifico americano, l’ammiraglio Samuel Paparo, ha avuto una videochiamata con il generale Wu Yanan, capo del Comando del Teatro sud dell’Esercito popolare di liberazione cinese – il primo dialogo militare di questo livello sin dall’ultimo incontro fra Biden e Xi.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.