Regno unito
Re Carlo nella mischia: il colbacco d'orso delle Guardie e un'idea per il governo
Un abbraccio tira l’altro e si finisce per fare la coda al cinema come i cugini scandinavi: il re non si fa problemi a farsi toccare, al contrario del rigore mostrato più volte dalla madre e dalla nonna. Intanto gli animalisti della Peta propongono pellicce sitetiche per le Foot Guards, ma l'Alto Adige potrebbe farsi spazio nella trattativa
"E’ stato come essere schiacciato in una mischia”, ha poi commentato Carlo III. Credo che non gli capitasse dai tempi cupi dell’atroce scuola scozzese di Gordonstoun dove lo spedì papà Filippo, e in ogni caso non è abituato. L’episodio si è svolto a Buckingham Palace, è stato ripreso dalla Bbc e ovviamente ha fatto subito il giro di ogni possibile social. Protagonista, la squadra neozelandese di rugby femminile, a Londra per giocare con le britanniche e naturalmente ricevuta a Palazzo, dato che il re attuale è attento al Commonwealth come sua madre, affezionata alla veneranda istituzione post imperiale quasi quanto a cani e cavalli. Una delle rugbyste, Ayesha Leti-I’iga, ha sorprendentemente chiesto “un abbraccio” al re. Carlo, in maniera ancor più sorprendente, ha risposto: “Perché no?” e di conseguenza Ayesha vattelapesca e le sue compagne l’hanno sommerso: come, appunto, in una mischia. Media britannici in delirio.
Va praticata, ovvio, una certa tolleranza. Anche in ogni Agatha Christie c’è sempre un coloniale che fa qualcosa di sconveniente e che viene scusato appunto perché arriva da qualche dominion periferico. E d’altronde, poiché c’è sempre anche il giovinotto di buona famiglia che viene spedito oltremare dopo qualche peccatuccio di gioventù (di solito è un assegno falsificato, generalmente a Oxford), quello delle cattive maniere dei coloniali sembra un circolo vizioso: si comportano male, ma non si capisce come possano comportarsi meglio se nelle colonie viene spedito, appunto, chi si è già comportato male in patria. E comunque queste robuste rugbiste degli antipodi appaiono assai simpatiche; dal canto suo, Carlo non sembrava per nulla infastidito, semmai divertito, come testimonia la battuta che poi ha fatto nel solito discorsetto di saluto.
Però bisogna stare attenti. Strette di mano a parte, e con il guanto, Elisabetta II non toccava e non si faceva toccare da nessuno, altro che abbracci, e quando quel cafone di Trump le afferrò un braccio non disse niente, ma la sua faccia schifata mostrava tutto. La bisnonna del nonno di Carlo, insomma la regina Vittoria, nell’inconcepibile ipotesi che qualcuno l’avesse abbracciata, ancora più remota nel caso di una rugbista femmina, se ne sarebbe uscita con una delle sue tipiche frasi refrigeranti, tipo: “Non ne siamo affatto divertite”. Invece siamo in un’epoca disgraziata in cui anche i sovrani devono mostrarsi alla mano, disponibili all’invadenza dei sudditi e alle loro appiccicose manifestazioni d’affetto.
Ma la vera grande lezione lasciata da Elisabetta è che il sovrano non è una persona normale, “uno di noi”, altrimenti l’aura favolosa della monarchia sparisce e non si capisce più perché uno di noi debba portare la corona in testa. Un abbraccio tira l’altro, e si finisce per andare in giro in bicicletta e fare la coda al cinema come i cugini scandinavi.
P.S.: Ieri è arrivato anche un altro duro attacco alla monarchia. Gli animalisti della Peta hanno riesumato la polemica contro gli altissimi colbacchi d’orso delle Guardie, sostenendo che sarebbe meglio utilizzare pellicce sintetiche non solo per tutelare gli orsi, ma anche perché ogni colbacco costa 2.040 sterline. Dalla Difesa ribattono che tutte le pellicce provengono da “forme di caccia legali e autorizzate” in Canada e che il pelo sintetico non garantisce gli “standard di qualità richiesti”. Al solito, il governo italiano dorme. Invece di sopprimere o deportare le varie orse che azzannano i turisti in Alto Adige, con spese e polemiche infinite, vendiamole agli inglesi. Giorgetti ci pensi, la Finanziaria sarebbe un po’ meno lacrime e sangue (e in ogni caso lacrime e sangue dell’orso, non del contribuente).