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Ucraina

Sui 50 miliardi per Kyiv all'Ue manca coraggio. Il rischio default e (ancora) il sabotatore Orbán

David Carretta

L'Unione europea ha davanti a sé due scelte: vincere contro il leader magiaro, che agisce per conto di Putin, o ripagare il prestito al posto dell'Ucraina

I ministri delle Finanze della zona euro oggi torneranno a discutere del prestito da 50 miliardi di dollari promesso dal G7 all’Ucraina entro la fine dell’anno, utilizzando gli attivi sovrani della Russia immobilizzati dalle sanzioni. Toccherà al ministro Giancarlo Giorgetti, data la presidenza italiana del G7, fare il punto all’Eurogruppo di Budapest. Come con le forniture di armi e la possibilità di colpire in profondità la Russia, c’è urgenza ma manca coraggio. Il governo di Kyiv ha bisogno del denaro per comprare materiale militare ed evitare il default, mettendosi al riparo dalle turbolenze di un possibile ritorno di Donald Trump. Dalla volontà dell’Unione europea di assumersi qualche rischio in più dipende la capacità dell’Ucraina di sopravvivere militarmente e finanziariamente. Ancora una volta, Viktor Orbán potrebbe essere il sabotatore per conto di Vladimir Putin.

I 50 miliardi dovrebbero servire all’Ucraina a comprare armi da usare senza le restrizioni imposte dagli alleati e a finanziare le esigenze del bilancio nel momento in cui le casse dello stato si stanno svuotando. L’idea del prestito è nata nel corso della primavera. Due sono le ragioni che hanno spinto americani ed europei a lavorare su questo piano. La prima è morale: usare i soldi della Russia congelati dalle sanzioni a favore dell’Ucraina. La seconda è più pragmatica: garantire a Kyiv risorse sufficienti nel breve periodo per mettersi al riparo dai rischi di una presidenza Trump negli Stati Uniti e/o dalla stanchezza europea.

Inizialmente l’Ue pensava di utilizzare gli attivi russi come arma di ricatto per costringere Mosca a pagare le riparazioni di guerra o contribuire a finanziare la ricostruzione dell’Ucraina. Ma i tempi della guerra si sono allungati e quelli della politica si sono ristretti. La possibilità di confiscare i 300 miliardi di dollari della Banca centrale russa congelati è stata esclusa per l’opposizione dei grandi paesi europei, preoccupati per la stabilità finanziaria della zona euro (200 miliardi circa sono immobilizzati in Belgio) e timorosi di perdere una causa intentata da Mosca davanti a un arbitrato internazionale.

Non potendo toccare il capitale, l’Ue ha offerto al G7 di utilizzare gli interessi. Il meccanismo prevede di usare i proventi straordinari degli attivi immobilizzati russi per ripagare il prestito nel corso di diversi decenni. I dettagli sono stati discussi alla riunione dei ministri delle Finanze del G7 a fine luglio a Rio de Janeiro, sotto la presidenza di Giorgetti. Tuttavia, in quell’occasione gli Stati Uniti hanno sollevato un problema. Le sanzioni europee devono essere rinnovate ogni sei mesi. Basta il veto di un solo paese per scongelare gli attivi della Banca centrale russa e far venire meno i proventi per ripagare il prestito. Chi si assume la responsabilità e il rischio?

Confrontata a un rischio l’Ue spesso si paralizza. Ancor più se, come in questo caso, si tratta di caricarsi una passività sul bilancio comunitario o sui bilanci nazionali. “Durante l’estate a Bruxelles sono stati fatti molti progressi”, spiega al Foglio un funzionario dell’Ue: “La legislazione è tecnicamente pronta”. Ma restano da risolvere “aspetti politici”. Il principale ostacolo riguarda la durata delle sanzioni europee. Gli Stati Uniti insistono per andare ben oltre i sei mesi, in modo da garantire agli investitori che il prestito sarà coperto nel lungo periodo. La questione è “se e come cambiare la decisione di immobilizzare gli attivi per assicurare la continuità dei proventi”, spiega il funzionario.

Un’ipotesi è modificare il regime delle misure restrittive, togliendo la scadenza alle sanzioni fino a quando l’aggressione russa non sarà terminata e ci saranno garanzie che Mosca pagherà i danni. Ma significherebbe concedere alla Polonia o ai baltici un veto sulla fine delle sanzioni, quando altri paesi vogliono tenersi le mani libere in caso di conflitto congelato. Un’altra opzione è quella di estendere il rinnovo delle sanzioni da sei a dodici, ventiquattro o trentasei mesi. Ma Viktor Orbán, che ha già la possibilità di bloccare ogni modifica al regime attuale, manterrebbe periodicamente la possibilità di far saltare le sanzioni.

C’è urgenza e non solo perché le presidenziali negli Stati Uniti si avvicinano. I 50 miliardi servono all’Ucraina anche per evitare un default. Il Fondo monetario internazionale vuole che il prestito del G7 sia approvato prima di fornire la prossima tranche di aiuti a Kyiv. “Questo pacchetto è cruciale”, dice il funzionario: “E’ imperativo rendere disponibile il denaro all’Ucraina”. L’Ue ha di fronte due scelte: uscire vincitrice da un braccio di ferro con Orbán oppure assumersi il rischio di dover ripagare il prestito al posto dell’Ucraina. Altrimenti sarà l’ennesima promessa mancata.

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