Kamala Harris - foto Ansa

Il Foglio Weekend

Addio, mio caro woke. Adesso la parola d'ordine della sinistra americana è "classe media"

Michele Masneri

Il "contrordine compagni" è arrivato clamorosamente alla convention democratica di agosto, quella che ha incoronato Kamala Harris a sfidante di Trump per la Casa Bianca, dopo la sostituzione in corsa con l’anziano Biden

Un fantasma si aggira per il mondo: è quello del woke. Fantasma nel senso che l’è morto: sarà un’impressione, ma negli ultimi mesi il tanto temuto minestrone ideologico che nel mondo viene attribuito alle sinistre, quel pastrocchio molto indefinito per cui si parla di identità, genere, diritti un po’ complicati, sesso attribuito alla nascita, maschi con vagina, quel mondo dove a un certo punto si teme che salti fuori sempre Ru Paul, pare non interessare più veramente a nessuno


Il “contrordine compagni” è arrivato clamorosamente alla convention democratica di agosto, quella che ha incoronato Kamala Harris a sfidante di Trump per la Casa Bianca, dopo la sostituzione in corsa con l’anziano Biden. E lì, in cinque giorni di discorsi, slogan, endorsement, nessuno che abbia mai nominato non il woke (il woke non viene mai nominato dai wokisti: così lo chiamano i suoi nemici) ma le sue parole d’ordine: trans, innanzitutto, e poi lgbtq, abilismo, victim blaming, black lives matter, binario e non binario (triste e solitario...)


Le persone transgender in particolare erano state protagoniste nella convention del 2016 e in quella del 2020. Nella prima il deputato Patrick Maloney di New York aveva trionfalmente presentato Sarah McBride, “prima donna transgender ad aprire una convention”; quattro anni dopo aveva trionfato Danica Roem, poi eletta nel Senato della Virginia. Quest’anno, niente.     Eppure gli  alfieri del “woke” erano tutti lì, dalla deputata del Bronx Alexandria Ocasio Cortez a Oprah Winfrey regina televisiva dei diritti, alla stessa candidata Harris. I diritti, almeno quelli trans, che  costituivano la parte più avanzata del woke, e la sua novità, forse si è capito che non vendono.  Non si traducono in voti. La nuova dicitura del panierino dei diritti democratici è piuttosto una versione addomesticata in “reproductive rights”,  che da una parte significa diritto all’aborto e dall’altra libero accesso alle tecniche di fecondazione assistita, insomma libertà delle donne, che, si spera, convinca le signore anche indecise a votare Harris. La parola “gender” come quella “identity” invocate negli anni scorsi, sono invece  scomparse dalla confezione come l’olio di palma o il glutammato. Harris non fa mistero  del resto – l’ha dimostrato anche nell’ultimo dibattito del 10 settembre contro Trump – di voler sfondare al centro, citando forse inconsapevolmente Paolo VI, “sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono”; vuole unificare il paese dilaniato e incattivito da molte cose tra cui  le guerre culturali. Dunque, via il woke, che effettivamente ci ha fatto litigare con tutti, gli zii e i parenti, e ha reso il Natale impossibile.


L’unico accenno alla questione trans l’ha fatto Trump nel segmento diciamo più fantasy del suo intervento al dibattito televisivo. Insieme alle accuse agli immigrati di mangiare cani e gatti e sugli aborti “compiuti anche dopo il nono mese”, l’Arancione ha detto che Harris vuol fare “operazioni di cambio di sesso sugli immigrati illegali in carcere” (o qualunque cosa volesse dire Trump con  “Now she wants to do transgender operations on illegal aliens that are in prison”. Non si sa se l’ex presidente dica cose generate dalla IA oppure random, in questo caso era una fantastica summa di concetti svalvolati che metteva insieme spauracchi da Jk Rowling a Elon Musk a  Silvana De Mari, a tanti anche moderati che forse negli ultimi anni si sono spaventati per via di donne-che-sono-uomini e vorrebbero andare in carcere solo per molestare donne vere, e poi alieni, operazioni, cambi di sesso, pugili, maestre wokissime che imporranno a tuo figlio studente di diventare figlia, in una allucinatoria “carriera alias” che poi spinge qualcuno a gettarsi tra le braccia dei Pro Vita e andare a sussurrare nei consultori.  


Ma tra alias e aliens (che in americano vuol dire immigrati irregolari, ma certo fa un po’ impressione), la centrista Harris, che, ricordiamolo, viene da San Francisco, la patria di qualunque cosa sia o fosse il woke, parlandone da vivo, cioè dei diritti, della lotta di liberazione gay, della sperimentazione sessuale, non ne vuole sapere più niente. Certo, il suo appoggio alla comunità gay è sccontato, partecipa ai Pride, minimo sindacale in America, ma ha deciso che ora non è il momento di parlarne. Piuttosto si pone come una classica vecchia zia: “Amo tantissimo quei piccoli negozietti… sapete, non mia madre, ma un’amica di mia madre aveva uno di quei negozi che sono la spina dorsale d’America”, ha esordito in apertura del dibattito come una Thatcher californiana. “Solo io su questo palco punto a risollevare la  middle class americana, ha ribadito ossessivamente nominando quell’oscuro oggetto del desiderio per ben 9 volte. “Middle class” è il mantra ripetuto fino allo sfinimento anche durante la convention d’agosto. Non solo Harris ma tutto l’apparato del Partito democratico, il vice in pectore, professore di scuola e allenatore Tim Walz, hanno evocato e titillato più volte questa visione, ponendosi anche loro come ceto medio meno riflessivo possibile per gli sperati elettori. E Pete Buttigieg, il fantastico ministro dei Trasporti, ex sindaco amatissimo, ex marine, gay con marito e figli, ha fatto vaghe rivendicazioni, e parlato piuttosto delle sue seratine con i bambini e la friggitrice ad aria. New normal, da Middlesex a middle class, insomma.

 

E a questo bisognerà adeguarsi, naturalmente, come sempre. Qui nelle colonie, è chiaro, ci sarà il solito effetto stella morta, per cui si andrà avanti ancora anni a scannarci per una questione che laggiù dove è stata inventata non è più in produzione? Si rischierà di trovarci come Alberto Sordi travestito da inglese in “Fumo di Londra”, quando nella capitale britannica già in piena Swinging London capellona che ha abolito l’abito intero lui si presenta vestito secondo lui “all’inglese”? Qualche giorno fa infatti il parlamento italiano ha approvato una mozione della Lega contro “il gender” nelle scuole, forse distratti dalla questione Boccia, senza sapere che il gender non si porta già più; il gender non abita più qui, è fuorimoda, è out. Alcuni però sono più svegli: Elly Schlein, che non era alla convention di Chicago ma comunque ha il passaporto americano, e l’avrà vista alla televisione, ha subito rilanciato il messaggio harrissiano: bisogna puntare sulla classe media. Lontani sono i tempi di giugno quando ballava sul carro del Pride romano (e un nostalgico Bertinotti commentava in uno studio televisivo: “Noi provammo allora a connettere le istanze che muovevano dalla lotta di classe con quelle delle libertà individuali. Rifiutavamo lo schema secondo cui il movimento operaio sarebbe stato imprigionato nella questione sociale”. Poi, verrebbe da dire, non hanno risolto né una cosa né l’altra

 

Ma comunque, bisogna capirsi anche su cosa si intende per middle class esattamente. Se io mi percepisco classe media, non lo diventerò automaticamente. In Italia, secondo una ricerca Tecné, ci sarebbero 1,2 milioni di elettori che ritengono di appartenere al ceto medio. Ma come si entra, nel benedetto ceto medio? Che ormoni servono? Secondo l’Ocse, classe media è quella categoria con reddito compreso tra il 75  e il 200 per cento del reddito mediano di ogni Paese di riferimento. E così se secondo l’Istat il reddito familiare netto mediano italiano è di 26.979 euro, di conseguenza  ne farà parte chi guadagna tra i 20.234 e i 53.958 euro netti l’anno. Praticamente nullatenenti per gli standard americani: negli Stati Uniti il reddito mediano è di 77 mila dollari, quindi rientreranno nella agognata, leggendaria middle class le famiglie che guadagnano tra 51.558 e 154.590 dollari l’anno. Cifre che da noi identificano sibariti e tycoon, cifre che le guadagnano le nostre Opre Winfrey.E parliamo delle cifre ufficiali. Ma  tutti gli altri, la classe media italiana fantasma che avrà reddito dichiarato zero, cosa voterà? L’evasore totale italiano seguirà i dibattiti esteri? L’evasore totale italiano tenderà a votare Schlein o si percepirà più di destra, “law and order” o sarà invece un astensionista, magari perché è tutto un “magna magna”?  L’evasore è la vera carriera alias degli italiani

 

I più svegli anche da noi si sono comunque accorti per tempo del cambio di paradigma. Forse fiaccati dalle defatiganti polemiche estive su pugili donne che alcuni amano considerare uomini, forse spaventati da denunce di suddette pugilesse, forse avendo realizzato che “con questo woke non vinceremo mai”,  e che ormai son tutti arrabbiatissimi con tutti, e si stava meglio quando si stava peggio, è chiaro che la questione va accantonata. Chiara Valerio, il 24 agosto, su Repubblica, ha fatto un clamoroso dietrofront. “Non mi interessa lo schwa. Mi interessa discutere di diseguaglianze, e dunque di classi sociali. La prima diseguaglianza, da correggere, è economica”. Così, è chiaro, va in pensione la particella che doveva superare il patriarcato della lingua; che non piaceva a nessuno e che sarebbe stata comunque inapplicabile nel paese che - si è detto fino allo sfinimento - non ha mai imparato a scrivere giusto sauté di cozze sui menu;  però è un cambiamento grosso, si chiude un decennio, anche. Volendo, preciso preciso: “stay woke”, venne fuori proprio dieci anni fa con le manifestazioni dei neri in America dopo i soliti ammazzamenti da parte della polizia bianca, a Ferguson, Missouri, nell’agosto 2014, che dettero origine al Black Lives Matter.

 

Se i poveri afroamericani subivano la pratica, nelle università ribolliva la toeoria. Se “Gender trouble”, il manuale di tutti i wokismi, opera della filosofa Judith Butler, è del 1990,  il movimento era percolato tra le università insieme alla “critical race theory” per cui noi siamo tutti più o meno vittime del razzismo della società secondo schemi piuttosto complicati. Poi, era esplosa in America e infine qui nelle colonie. L’alfiera indiscussa era diventata Michela Murgia che aveva compiuto un’efficace traduzione del fenomeno innestandolo su tematiche e sensibilità più domestiche come la precarietà e i call center, in un neopasolinismo che le sopravvive (e un giorno forse andrà studiato il parallelismo col poeta, a cui la accomunava una serie di elementi: la morte tragica; la feticizzazione della figura più che dell’opera; lo strenuo cattolicesimo di fondo). Poi era sorto tutto un indotto di derivati, succedanei, eredi, imitatori e imitatrici: influencer e attivisti, e anche dall’altra parte, editorialisti, autori, commentatori, in una specie di spaventosa dilatazione del fenomeno.

 

Soprattutto dalla parte dei detrattori, per cui “woke” era diventato qualunque cosa che fosse vagamente educata, se non ti mettevi la mano davanti alla bocca nel fare il ruttino eri troppo woke. Farsi la doccia era woke. Il woke era anche uno straordinario alibi per creativi bolliti, comici che non facevano più ridere (“per colpa del woke, non si può più dire niente”, “a me m’ha rovinato er woke”, sempre per rimanere ad Alberto Sordi). Mentre nel paese sgangherato si poteva dire ancora di  tutto, e di più. Il sottotitolo dell’ultimo libro del gagliardo Vittorione Feltri, “Fascisti della parola” (Rizzoli) recita: “Da negro a vecchio a frocio a zingaro, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca” (di bocca, ma non dalla copertina di un libro edito dal primo editore nazionale). E in generale, c’è la sensazione, a spanne, che ovunque l’antiwoke fatturi più del woke, l’indignazione contro il presunto “pensiero unico” più del  pensiero unico  (Vannacci ha venduto di più di Michela Murgia, e viene sempre un sospetto: che  poi gli woke e gli  antiwoke più scatenati brinderanno insieme  alla faccia nostra, dopo i dibattiti televisivi, festeggiando le tirature)

 

Noi si è poi sempre pensato timidamente che un po’ di woke facesse bene all’Italia, paese anzi nazione dove da sempre si poteva dire  e si diceva tutto e il contrario di tutto, anche troppo, e si era soliti invocare la dittatura del politicamente corretto (antenato del woke) pure a fronte di giornali e telegiornali e dibattiti televisivi molto vannacciani, impensabili in altri paesi. E la cancel culture (altra antenata già dimenticata) che faceva molta paura quando si temeva che come in America togliessimo le nostre belle statue di conquistatori e schiavisti, fosse improbabile in un paese dove ancora ci sono fasci di combattimento incisi su tombini e ponti ed edifici e scuole, e in cui la sciatteria e la mancata manutenzione prevale su qualunque “culture”.

 

C’era poi tutto il problema disneyano: cioè di manufatti di intrattenimento e consumo culturale “cancellati” dal woke perché “problematici”. E lì, un coro: ah non poter più leggere Ovidio nella sua interezza! Ah, lo Shakespeare menomato! Che presupponevano un mondo di lettori forti, fortissimi, un’Italia di filologi che non viene fuori da nessuna statistica, anzi. Infatti erano casi generalmente però sempre americani (anche se poi studiando un po’ erano quasi sempre anche fake news). Però hanno portato anche lì a grossi guai, per esempio col governatore antiwokissimo della Florida DeSantis che ha litigato molto con la Disney, rea di fare la “Sirenetta” nera e altri misfatti,  ma adesso hanno fatto pace.    

 

Anche il temuto contagio degli atenei americani in preda al woke più selvaggio  non sembra essere avvenuto: negli atenei italiani più che la cancellazione mettiamo di Dante perché “problematico” sbucava sempre arcaicamente  il preside diffuso che palpeggiava la studentessa e il concorso truccato  come nel 1950; e la campus left, cioè la temuta sinistra universitaria intransigente,  pare improbabile non avendo nemmeno i campus ma edifici generalmente vicino a casa, oppure le Pegaso e Cusano online (forse abbiamo avuto roccaforti telematiche contro il woke, inconsapevolmente?). 
Ci si chiede piuttosto che ne sarà  di tutti gli studenti delle classi medioalte italiane andati a studiare ormai in massa in America e dunque wokissimi proprio mentre il paradigma dà una sonora marcia indietro.  Chi li assumerà?  Servirà una rieducazione?A suon di film di Lino Banfi e “Merlo maschio?”.   E soprattutto che ne sarà dei poveri e delle povere trans, simboli della rivoluzione,  a questo punto penalizzati e abbandonati dalle istituzioni, meno tutelati dallo stato dei portatori di bond e azioni della Parmalat? 

 

Danni sistemici? Proprio mentre  forse un po’ di classe media non sommersa era nata  grazie a wokisti e antiwokisti che finalmente avevano uno stipendio. Giornalisti in pensione, ex femministe in disarmo, polemisti bolliti, tutti richiamati in servizio.  Il woke e il suo opposto son stati un gran Pnrr per tutta una classe intellettuale, diciamolo. Ma se gli ex wokisti si riconvertiranno alla lotta di classe, che ne sarà di quel gigantesco indotto librario-pubblicistico? Ci saranno ripercussioni sul pil? A sinistra, sorgeranno tanti influencer con hasthag #middleclass?  E a destra, gli allarmismi sulla “deriva woke” che teneva in piedi intere pubblicazioni e palinsesti?  Sulle lotte per i diritti, potrebbe essere però un buon momento. Si potrà finalmente ricominciare dove ci si era interrotti: la destra e la parte di sinistra che durante i vecchi dibattiti parlamentari sul Ddl Zan (considerato apice del wokismo)  tuonavano che  “non  è col diritto penale che si va avanti”,  “se togliamo i riferimenti al gender noi ci siamo”,  adesso saranno pronti, prontissimi, impazienti di varare norme per il matrimonio ugualitario e l’adozione gay. O no?

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).