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In America

A volte ritornano: Kamala Harris e l'idea del controllo dei prezzi

Bruno Pellegrino

Perché il caro-vita non si combatte imponendo per decreto un tetto ai prezzi. Un caso di scuola: la grande carestia cinese del 1959-1961

Stando ai sondaggi, Kamala Harris è in affanno nella corsa alla Casa Bianca contro Trump. Tra i motivi del malcontento che serpeggia tra l’elettorato americano, a cui Kamala deve dare risposta prima dell’elezione di novembre, tiene banco il caro-vita. Il costo del carrello della spesa degli americani è salito quasi del 20 per cento durante l’Amministrazione Biden-Harris, un’inflazione che non si vedeva dalla crisi del petrolio del ’79. L’entourage della vicepresidente, puntando il dito contro la presunta speculazione dei produttori, ha quindi rispolverato una vecchia idea: una politica di controllo dei prezzi, ribattezzata per l’occasione “Price Gauging Ban” (decreto anti speculazione).

Chi ha un’infarinatura di scienze economiche sa che le politiche di controllo dei prezzi sono una delle idee peggiori in materia di politica economica. Non solo non risolvono l’inflazione, ma tendono a peggiorare il quadro. Il motivo è semplice: l’aumento dei prezzi non è una malattia ma un sintomo, e si verifica generalmente per un buon motivo: forte domanda o carenza del bene. L’aumento dei prezzi è un segnale che stimola l’economia a produrre quel bene in quantità maggiore. Imporre un tetto ai prezzi equivale a “spegnere” quel segnale: l’offerta non reagisce e il bene diventa irreperibile. È come reagire alla spia dell’olio-motore che si accende attaccandoci sopra un chewing gum.

Le critiche degli economisti sono piovute inesorabili, con qualche eccezione. Isabella Weber (University of Massachusetts-Amherst) ha difeso il maldestro decreto anti speculazione dalle pagine del Boston Globe con una giustificazione tecnica, ovvero che l’offerta è inelastica nel breve termine.

Cosa intende dire la dott.ssa Weber quando dice che l’offerta è inelastica? L’esempio da lei fornito è che se il prezzo delle uova sale, le galline non possono subito iniziare a deporre più uova. Per aumentare la produzione servono più galline e quindi più tempo. Perché non mettere dunque nel frattempo un tetto al prezzo delle uova?

Questo argomento, apparentemente logico, è facilmente confutabile. Supponiamo che il prezzo delle uova in Oregon salga. E’ vero che è difficile per le galline dell’Oregon aumentare la produzione di uova nel breve termine, ma è al contempo facile per i supermercati importare più uova dalla vicina California. L’aumento del prezzo agisce come un segnale che ridirige l’offerta di uova dalla California verso l’Oregon, alleviandone la scarsità.

Cosa succede se mettiamo un tetto al prezzo delle uova in Oregon? Questo meccanismo viene soppresso, e le uova non vengono più importate dalla California. Si rischia addirittura che gli allevatori dell’Oregon inizino a esportare le loro uova in altri stati, dove possono venderle a prezzi non-calmierati. A quel punto la frittata è fatta. Il risultato? Scaffali vuoti nei supermercati dell’Oregon.

L’esempio delle uova potrebbe sembrare di portata minore, ma la storia economica ci insegna che la tentazione di sopprimere il meccanismo dei prezzi ha portato a danni ben maggiori. Un caso eclatante è la grande carestia cinese del 1959-1961: un disastro umanitario da 30 milioni (circa) di vittime, analizzato a fondo in uno studio di Xin Meng, Nancy Qian e Pierre Yared, pubblicato nel 2015 nella prestigiosa Review of Economic Studies.

Gli autori analizzarono con cura certosina una mole di dati d’archivio sulla produzione agro-alimentare cinese negli anni della carestia, giungendo a una scoperta clamorosa: la produzione era ben al di sopra del livello di sussistenza. Ovvero, c’era abbastanza da mangiare per tutti. Come è possibile, dunque, che sia perita così tanta gente?

La risposta, secondo lo studio, va ricercata nell’impianto economico della Cina di quegli anni: un paese vastissimo e profondamente eterogeneo. La produzione agro-alimentare crollò in alcune regioni ma non in altre. In un’economia di mercato, il prezzo delle derrate alimentari sarebbe salito rapidamente nelle zone colpite; le altre avrebbero esportato la loro produzione verso le prime. Queste si sarebbero impoverite, ma non ci sarebbero state decine di milioni di morti di fame.

Ma nella Cina maoista non c’era un’economia di mercato e non c’erano prezzi. L’economia dell’intero paese era pianificata a tavolino da Pechino dai gerarchi del Pcc. La produzione agro-alimentare veniva sequestrata dallo stato, ma non venne redistribuita geograficamente per far fronte alla carestia. Si consumò così una delle grandi tragedie umanitarie del XX secolo.

La lezione vale dunque per Mao come per Kamala, e a prescindere dal periodo storico e dal tifo politico: guai a sopprimere il meccanismo dei prezzi. Le conseguenze possono essere nefaste, sia che si tratti di scaffali vuoti o, nei casi più estremi, di carestie mortali.
 

Bruno Pellegrino, Columbia Business School.

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