Bangalore, foto Ansa 

l'analisi

L'India, o la potenza della demografia

Carlo Buldrini

Una popolazione in continuo aumento, che ha già superato quella cinese. Ma ciò che  conta è la sua composizione: più del 40 per cento ha meno di 25 anni. Un capitale umano che si traduce in un formidabile potenziale di crescita economica

Nell’aprile del 2023 le Nazioni Unite hanno annunciato nel World Population Report che, verso la metà dell’anno, la popolazione indiana (1,4286 miliardi di esseri umani) avrebbe superato quella cinese (1,4257 miliardi). India e Cina hanno così oggi quasi lo stesso numero di abitanti, ma mentre l’India è una superpotenza demografica, la Cina ha smesso di esserlo. Per capire il perché, bisogna prendere in considerazione un parametro chiamato “dividendo demografico”. Lo United Nations Population Fund (Unfpa) lo definisce così: “Il potenziale di crescita economica che può derivare dai cambiamenti nella struttura per età della popolazione, quando la parte degli individui in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) è superiore a quella in età non lavorativa (dai 14 anni in giù, e dai 65 in su)”. In altre parole, il dividendo demografico è la fase in cui la fascia centrale della popolazione in età lavorativa è ampia e supera la somma dei più giovani e dei più anziani che ancora non lavorano o hanno smesso di lavorare. 

 

Se si prende in esame la popolazione della Cina, già negli anni Settanta del secolo scorso il Partito comunista cinese aveva lanciato lo slogan “più tardi, più a lungo, di meno”. Il riferimento era ai matrimoni da contrarsi “più tardi” nella vita, al rimanere “più a lungo” senza procreare un nuovo figlio e al fatto che i figli dovevano essere “di meno”. Il tasso di fertilità in Cina crollò al 2,7 (bambini per ogni donna). Per il partito non era ancora abbastanza e, nel settembre 1980, Deng Xiaoping lanciò la campagna del “figlio unico”. La norma fu inserita nella Costituzione cinese nel 1982. Per attuare questa nuova politica, nel solo 1983 – anno che registrò in Cina 21 milioni di nascite – furono effettuati 14,4 milioni di aborti, 20,7 milioni di sterilizzazioni (quasi tutte femminili) e vennero inseriti 17,8 milioni di spirali contraccettive, tutte pratiche effettuate quasi sempre contro la volontà delle dirette interessate. E’ stata forse questa la follia più grande delle tante commesse dal Partito comunista cinese. Il danno causato dalla politica del figlio unico, nel lungo periodo, risulterà irreparabile.

Negli anni che vanno dal 1982 al 2000, la Cina ha pienamente usufruito dei benefici derivati dal suo dividendo demografico. Le cose sembravano andare a gonfie vele. In meno di 20 anni, il reddito pro capite cinese è quadruplicato, un record rimasto ineguagliato dagli altri paesi del mondo. Ma nel periodo 2000-2013, i vantaggi ricavati dal “dividendo” cinese sono progressivamente diminuiti fino ad arrestarsi quasi del tutto nell’anno 2015. A Pechino sono cominciati a suonare i campanelli d’allarme. Nel 2016 la Cina ha abbandonato la politica del figlio unico e, nel 2021, ha introdotto la politica dei tre figli, sostenendola con facilitazioni fiscali e altri incentivi. Ma la cosa sembra non funzionare. La Cina è caduta in quella che viene chiamata la “trappola della bassa fertilità” che scatta quando il tasso di fertilità della donna scende sotto l’1,5. Raggiunta questa soglia, malgrado gli incentivi, il tasso non riesce più a risalire. Dopo la fine della politica del figlio unico, il tasso di fertilità delle donne cinesi è sceso all’1,28 nel 2020, all’1,08 nel 2022 e oggi ha raggiunto praticamente l’1,0. Anche la popolazione cinese ha iniziato a diminuire. Stando ai dati del National Bureau of Statistics of China, nel 2023 le nascite nel paese del Dragone sono state 9,02 milioni, la metà di quelle avvenute nel 2017. I morti, nello stesso 2023, sono stati 11,1 milioni, 500.000 in più rispetto all’anno precedente. Questo significa che la popolazione della Cina è diminuita di 850.000 persone nel 2022 e di 2,08 milioni nel 2023. Le previsioni sono catastrofiche. Secondo la Shanghai Academy of Social Sciences e il Center for Policy Studies della Victoria University di Melbourne, la popolazione della Cina, nell’anno 2100, scenderà a 525 milioni di abitanti contro l’attuale miliardo e 400 milioni. Stando alle previsioni, alla fine di questo secolo le persone in età da lavoro in Cina saranno 210 milioni, appena un quinto della cifra massima raggiunta nel 2014. Nel 2100, cento cinesi in età lavorativa dovranno sostenere l’esistenza di 137 anziani. Oggi sono solo 21 le persone uscite dal mondo del lavoro per anzianità a essere sostenute da 100 salariati cinesi. Negli anni a venire, la scomparsa del dividendo demografico della Cina e il progressivo invecchiamento della sua popolazione, deterioreranno in maniera sempre più marcata lo status di superpotenza del Dragone cinese.

 

Anche l’India, nel 1976, durante il periodo dell’“Emergenza” voluta da Indira Gandhi, tentò una campagna di controllo forzato delle nascite. Il “family planning” portato avanti da Sanjay Gandhi, il figlio minore di Indira, si basava sulle sterilizzazioni maschili. Migliaia di uomini – i più poveri del paese – subirono l’intervento di vasectomia. Famosa è rimasta la frase con cui una donna espresse la propria amarezza per l’intervento subìto dal marito. Disse: “A che serve il fiume se non ci sono più i pesci?”. L’anno successivo Indira Gandhi perse le elezioni, la campagna di sterilizzazione forzate fu interrotta per sempre e l’India, adesso, può usufruire di un favorevole dividendo demografico. La popolazione indiana è in continua crescita e la sua composizione demografica è oggi strutturalmente diversa da quella cinese. Stando alle stime di Standard & Poor’s Global e delle Nazioni Unite, la popolazione dell’India toccherà il suo picco nel 2064 quando raggiungerà il miliardo e 700 milioni di persone. Solo fra quattro decenni gli abitanti dell’India cominceranno a diminuire. L’età media dell’India è, nel 2024, di 28,4 anni (quella della Cina 39,6; dell’Europa 42,5; dell’Italia 47,8; del Giappone 49,4). Più del 40 per cento della popolazione indiana ha oggi meno di 25 anni. Questo fa dell’India il paese con il più alto numero di giovani nel mondo. I vantaggi offerti da una popolazione giovane sono evidenti. I giovani hanno davanti a sé un maggior numero di anni lavorativi. Hanno un potere di acquisto e una propensione a spendere superiore a quella degli anziani in quanto devono “sistemarsi” nella vita. Hanno una maggiore energia, sono più innovativi, sono più propensi al rischio e quindi al dar vita a nuove imprese che faranno ampio uso delle nuove tecnologie. I giovani indiani di oggi sono nati e cresciuti in una società di libero mercato e hanno avuto la possibilità di un ampio accesso a Internet. Li caratterizza un forte dinamismo e la voglia di competere a livello globale. 

Nel 2005-2006 l’India è entrata nella finestra dei vantaggi derivati dal dividendo demografico. Vi rimarrà fino al 2055-2056 e raggiungerà il picco del suo “dividendo” nel 2041. Già nel 2030 l’India potrà disporre di una popolazione in età lavorativa di 1,04 miliardi di persone e un corrispondente “tasso di dipendenza” (la percentuale delle persone giovanissime o anziane, non ancora o non più in età da lavoro) al minimo storico del 31,2 per cento. Negli anni dal 2004 al 2014 l’India è stata guidata dal primo ministro del Partito del Congresso Manmohan Singh, un esperto e stimato economista. In quel periodo la crescita economica annuale dell’India è stata in media del 7,9 per cento, e questo malgrado la crisi finanziaria mondiale del 2008. Nello stesso decennio, la popolazione indiana si è ingrandita in media dell’1,4 per cento all’anno e la crescita del reddito nazionale lordo pro capite è stata del 5,5 per cento. Tra il 2004-05 e il 2011-12, l’economia indiana ha creato in media 7,5 milioni di nuovi posti di lavoro non agricoli all’anno. La cosa ha fatto sì che la disoccupazione – giovanile e complessiva – rimanesse molto bassa e ha portato un numero senza precedenti di mano d’opera fuori dall’agricoltura. I lavoratori dell’industria, sempre nel periodo 2004-2011, sono passati dal 10,5 al 12,8 per cento del numero totale degli occupati. Questi indici positivi si sono invertiti con l’arrivo di Narendra Modi al potere. Il numero dei nuovi lavori non agricoli annuali è crollato dai 7,5 milioni all’anno ai soli 2,9 milioni del 2019. I lavoratori del settore manifatturiero sono diminuiti. La disoccupazione giovanile che era stata del 13,5 per cento nell’anno 2000 è balzata al 24,5 per cento nel 2020. La mancanza di lavoro per i giovani è stato il vero fallimento dei dieci anni dell’era Modi. I benefici che derivano dal dividendo demografico non sono automatici. Per far leva su questo “dividendo”, l’India deve mettere i giovani al centro della propria azione politica. Deve investire nella loro istruzione, nello sviluppo delle loro abilità lavorative e, soprattutto, creare per loro nuovi posti di lavoro qualificati. Assieme ai giovani, l’altra componente della popolazione indiana da rafforzare è quella femminile. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), solo il 24 per cento delle donne indiane è oggi impiegata nel mercato del lavoro formale del paese. Una sensibile diminuzione rispetto al 27,8 per cento degli anni Novanta del secolo scorso. Malgrado le tante iniziative sbandierate dall’attuale governo in favore delle donne, è il “modello hindu”, continuamente riproposto dal Bjp e dallo Rss, a tenere le donne indiane rinchiuse fra le quattro mura domestiche. Il governo Modi rischia così di non usufruire appieno dei vantaggi offerti dal dividendo demografico in corso. Ma Modi non ci sarà per sempre. In India c’è chi comincia ad avanzare l’ipotesi che possa non completare l’attuale terzo mandato. 

Le elezioni politiche indiane della primavera scorsa hanno avuto un esito paradossale. La sera dell’annuncio dei risultati, i militanti del Bjp, il partito che ha vinto le elezioni, erano depressi e hanno tenuto le loro bandiere arrotolate. I supporter del partito del Congresso, il partito che ha perso il confronto elettorale, hanno invece festeggiato al suono di trombe e tamburi. Modi si aspettava di vincere char sau paar (“più di 400”) seggi nella Lok Sabha, il Parlamento di New Delhi. Il Bjp, il suo partito, ne ha vinti invece solo 240. La “tranvata” (la parola non ha origini sanscrite) presa da Narendra Modi nelle ultime elezioni politiche, gli ha impedito di cambiare la Costituzione e trasformare l’India in un Hindu Rashtra, una nazione hindu. L’idea dell’India di Jawaharlal Nehru è rimasta così sana e salva. Quell’idea che voleva un’India democratica, laica, socialista e con una “tempra scientifica tale da rimuovere superstizione e fatalismo che tanto hanno nuociuto allo sviluppo del paese”. 

Così come le elezioni del 1977 respinsero l’Emergenza di Indira Gandhi e misero fine alle sue tendenze autoritarie, le elezioni del 2024 hanno confermato la volontà degli indiani di salvaguardare la propria Costituzione e i princìpi che essa racchiude. L’India potrà così proseguire senza traumi nel suo cammino. Per molti decenni ancora, grazie al suo dividendo demografico, l’India continuerà la sua crescita economica e, con la sua giovane popolazione e il suo aperto e democratico sistema politico, eserciterà sempre più il ruolo di superpotenza emergente. Una superpotenza non necessariamente rivolta all’esterno ma che sarà, nei prossimi decenni, il maggior fornitore di risorse umane al mondo e, con la sua economia, il motore dell’intera crescita economica globale.
 

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