Sotto i missili
La fragilità logistica di Hezbollah e i tempi del fronte libanese
Raid israeliani nel sud del Libano. Domande e risposte sull’allargamento del fronte nord
“La domanda non è se, ma quando questa guerra avrà inizio. E prima comincerà, prima giungerà a un termine, presumibilmente attraverso le vie diplomatiche che, fino a oggi, non sono riuscite ad arginare questa escalation”, dice al Foglio Raphael Ben Levy, ricercatore senior presso il Misgav Institute for National Security, riferendosi al conflitto lungo il confine settentrionale tra Israele e Libano.
“E’ da undici mesi che Israele sta cercando di percorrere la via diplomatica, per evitare di aprire un altro fronte, ma né Hezbollah né la diplomazia internazionale sono riusciti a far rispettare la risoluzione dell’Onu 1701 del 2006, con cui si era concluso il secondo conflitto con il Libano”.
“Se non viene perseguita la via diplomatica – prosegue Levy – dopo oltre ottomila missili lanciati su zone civili e oltre ottantamila sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case dallo scorso 8 ottobre, Israele si troverà costretta a intervenire da solo”. Ieri l’Idf ha cominciato a colpire alcuni obiettivi del gruppo terrorista per danneggiare le infrastrutture militari dell’organizzazione, come ha confermato il suo portavoce: “Il nostro esercito sta lavorando per creare le condizioni di sicurezza, nel nord, per consentire a tutti i residenti, evacuati da oltre undici mesi di tornare alle loro case”. Angelica Edna Calò vive da trent’anni al confine con il Libano, presso il kibbutz Sasa e, rinchiusa nel bunker del suo villaggio mentre continuano i bombardamenti di Hezbollah, dice che è preoccupata in ogni caso, sia che il conflitto si ampli sia che non lo faccia: “Tre dei miei figli fanno il servizio militare e l’ultima cosa che vorrei al mondo è che dovessero entrare in Libano. Così come nessuna madre israeliana avrebbe mai voluto che i propri figli dovessero andare a Gaza. Eppure, non vediamo procedere alcun tipo di risoluzione diplomatica. Oltre a essere costantemente sotto attacco di un gruppo terrorista, ci sentiamo completamente abbandonati dalla comunità internazionale. E se nessuno è disposto a intervenire, alla fine dovremo farlo da soli”.
Il punto di rottura, o di svolta, sembra prossimo, accelerato anche da quello che Michael Barak definisce un “momentum storico” che non andrebbe sottovalutato. Secondo Barak, ricercatore senior dell’Istituto per il Controterrorismo presso la Reichman University di Herzliya, le recenti esplosioni dei cercapersone utilizzati dagli agenti di Hezbollah hanno avuto un grave impatto sulle funzioni operative e di intelligence del gruppo terrorista e inferto un duro colpo all’organizzazione dal punto di vista logistico e psicologico. L’aspetto psicologico – sostiene il ricercatore – potrebbe avere effetti persino superiori al danno diretto subìto dagli agenti colpiti, poiché da questo momento in poi Hezbollah etichetterà ogni strumento tecnologico che utilizza come sospetto. Inoltre, questa sensazione di incertezza potrebbe ritardare le operazioni del gruppo che ha sempre fatto molto affidamento sulle piattaforme tecnologiche che ora, invece, vede come un pericolo.
A questo si aggiungerebbe anche il fatto che è stata minata la stessa struttura piramidale, sempre più debole, di Hezbollah. Secondo i dati di ieri, oltre dieci agenti sono stati uccisi e tra tremila e quattromila sono rimasti feriti, centinaia in modo grave. Al momento i dirigenti di Hezbollah sono ancora molto presi dalla gestione logistica: è stato ordinato di eliminare ogni cercapersone o dispositivo di comunicazione, per timore di ulteriori esplosioni. Anche per questo, dice Barak, tutte le circostanze confermano che sarebbe il momento più favorevole per attaccare – e annientare in modo definitivo – il gruppo terrorista. Ricorda, tuttavia, come l’ingresso su un nuovo fronte non sia affatto scontato per via della totale mancanza di legittimazione sul piano internazionale e da parte degli Stati Uniti alla vigilia delle elezioni americane. Rimandare a dopo il voto, però, con l’avvicinarsi del rigido inverno libanese, potrebbe compromettere in modo significativo l’operato di Tsahal che si trova ancora impegnato sul delicato fronte di Gaza.
A questo si aggiungono le vicissitudini del governo israeliano e di un paese sempre più diviso al suo interno. Ieri la pretura di Be’er Sheva ha revocato l’ordinanza di riservatezza sull’identità dell’israeliano ingaggiato dall’Iran per assassinare alcuni leader israeliani: Motti Maman, 72 anni, sarebbe stato arruolato per organizzare l’assassinio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, del capo dello Shin Bet Ronen Bar e del ministro della Difesa Yoav Gallant. Intervenire in Libano adesso, dunque, oltre a risultare una mossa strategica per l’esercito, potrebbe esserla anche per un esecutivo dagli equilibri fragili. Oppure, un’altra strategia che potrebbe rivelarsi parte di un piano di più lungo periodo, sarebbe quella di cedere a Hezbollah il “dilemma dell’apertura” di una guerra su vasta scala.
Dalle piazze ai palazzi