Kyiv, la città consapevole
L’assurdità dell’attacco di Putin aiuta gli ucraini a sopportarlo, senza retorica nazionalista ma con una convinta estraneità rispetto alle scelte della Russia. Realismo e forza mescolati assieme, costruendo il futuro
Ho appena passato qualche giorno a Kyiv per la prima riunione dell’Ukrainian History Global Initiative di Tim Snyder, un progetto di “storia pubblica” cui partecipano quasi 100 persone ideato per aiutare un’Ucraina che ha fatto il suo ingresso nel mondo a presentarsi ad esso nel modo migliore, più serio e interessante possibile. Rispetto al passato, l’ho trovata una città stupefacente per il suo pulsare tranquillo alla faccia di raid notturni che ti costringono ad andare al rifugio anche più volte per notte, almeno finché decidi che non ne puoi più.
Quei raid, annunciati da app oltre che dalle sirene, fanno a pugni con un’atmosfera almeno in superficie calma e rilassata, con vie trafficatissime, con i locali pieni di gente, con i giovani che camminano con elmetti fatti da cocomeri spaccati, suscitando l’ilarità generale, con le solite donne elegantissime e i soliti tranquilli e affaccendati anziani.
Tutti sembrano, e direi sono, presi dalla loro vita e dai loro interessi, ma uno sente e sa che tutti sperimentano dentro tensione e sofferenza, nutrite anche dall’assurdità della situazione. Come non chiedersi, infatti, perché Putin ci bombarda? Perché sono costretto ad avere una parte della famiglia all’estero (che è anche per fortuna visto che le rimesse aiutano a vivere)? Perché devo preoccuparmi di mio padre e di mia madre o di famigliari che vivono vicino al fronte, o che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni, o del marito, del figlio, dell’amico arruolati? Sono infatti cose del tutto irragionevoli, assurde appunto, come se Roma fosse bombardata ogni notte, che so, su ordine del presidente islandese, al quale mi affretto a chiedere scusa perché so che non lo farebbe mai.
E forse è proprio la loro assurdità che aiuta a sopportarle: dovranno pur finire. Certo, la cosa che colpisce il visitatore, specialmente uno che conosce il paese, è la ormai totale estraneità della città e direi dell’Ucraina rispetto alle scelte fatte dal gruppo dirigente russo e alla strada che la Russia ha preso in conseguenza di esse, un’estraneità che 10-15 anni fa non era immaginabile. Vista da Kyiv, insomma, la guerra sembra oggi quasi incomprensibile e anche per questo, direi, la stragrande maggioranza degli ucraini, dirigenti inclusi, non credette agli avvertimenti di Joe Biden. E’ come se la Mosca di Vladimir Putin appartenesse a un altro pianeta e oggi toccasse sopportare e combattere un criminale certo, ma prima di tutto un matto che si è convinto che tu non sei un lontano parente che si è fatto una nuova vita, ma un fratello minore traditore con cui bisogna regolare i conti. Visto che però possiede migliaia di testate nucleari non si può semplicemente chiamare la neuro, come si diceva a Roma, e tocca pensare a come fermarlo e sconfiggerlo politicamente, diplomaticamente e sul fronte interno (sia ucraino sia russo), dato che non può essere tecnicamente sconfitto dal punto di vista militare e c’è il rischio concreto che si prenda i tuoi beni, la tua vita e i tuoi cari.
Forse anche così si spiega l’ancor più stupefacente, quasi totale assenza della retorica bellicista, nazionalista o comunque roboante che sarebbe normale trovare in un paese aggredito, invaso e in guerra da due anni e mezzo. L’unico posto che ti prende alla gola, e che però è tutto fuorché retorico, è un pezzo del giardino di fronte al monumento all’indipendenza dove centinaia di fittissime foto e bandierine ricordano i morti. Anche le foto sembrano però scelte per la loro serietà e compostezza, con persone, talvolta anche anziane, che ti guardano come a dire: vedete cosa mi è toccato fare, andava fatto, l’ho fatto e se potessi lo rifarei. In altre piazze ci sono dei resti di carri e autoblindo russe arrugginite e ci sono poi manifesti e cartelloni, non molti in verità, per ricordare morti e prigionieri e per invitare i vivi ad arruolarsi. Ma i cartelloni, spesso moderni, di quelli con più immagini che scorrono, sono anch’essi ragionevoli e sembrano concepiti per ricordare che si è in una guerra assurda, che anche per questo è ancor più necessario combatterla, che c’è chi lo fa, che chi facendolo si è sacrificato per tutti, e che c’è bisogno di nuovi soldati, sollecitati a presentarsi in nome della difesa, ma anche della professionalità, della competenza e del dovere morale.
L’Ucraina riesce a resistere a un nemico con risorse incomparabilmente superiori senza ricorrere alla coscrizione
Vedendoli, ti ricordi che siamo di fronte a una guerra eccezionale anche per questo: dopo più di due anni e secondo le ultime stime forse un milione di morti e feriti da ambo le parti, che Putin porta sulla coscienza, l’Ucraina riesce a reggere un nemico che ha il triplo degli abitanti, risorse economiche e finanziarie incomparabilmente maggiori, celebratissime tradizioni militari e il più vasto arsenale nucleare del pianeta senza ricorrere alla coscrizione (è vero che anche Mosca non l’ha finora dichiarata, ma gode appunto di una superiorità demografica ed economica incontestabile, e per certi versi lo ha surrettiziamente fatto, almeno nei confronti di certe regioni, le meno sviluppate, e di certi strati della popolazione, i più emarginati). Se uno ci pensa bene è anche questa una cosa straordinaria: persino nella Germania del 1914, per non parlare dell’Italia del 1915, i giorni dell’entusiasmo dei volontari furono contati, e pochi mesi dopo c’erano i carabinieri o chi per loro che cercavano renitenti e matti di guerra. E nel gennaio 1916 persino il grande impero britannico, malgrado le sue risorse e le sue tradizioni, fu costretto a decretare la coscrizione obbligatoria. Non è quindi sorprendente, ma anzi assolutamente normale, che oggi in Ucraina vi sia chi cerca di evitare anche di farsi registrare, per sfuggire poi a un’eventuale mobilitazione generale che però – ed è questa la cosa che dovrebbe far discutere – ancora non c’è stata. Uno ci pensa e ricorda i commentatori che discettano invece sulle “difficoltà” della leva in Ucraina per sostenere che Kyiv farebbe bene ad arrendersi a Mosca per garantire la nostra pace. I motivi della miseria dei loro discorsi e dello spazio che trovano sono un mistero che va accettato ma che ferisce, anche perché basterebbe pensare a quel milione di morti e feriti o leggere il da poco pubblicato “Io non ho paura” di Alexei Navalny per vedere, se non capire, il male che abita ora Mosca e la minaccia, anche di corruzione morale e intellettuale, che esso rappresenta se non viene arginato.
C’è la speranza di un armistizio che sancisca il desiderio degli ucraini di essere se stessi, cioè altro dal putinismo
Poi certo, parlando cogli amici emerge prepotente la voglia che l’assurdità e le sofferenze finiscano, e quindi la speranza di arrivare a un armistizio che sancisca in qualche modo il riconoscimento del desiderio degli ucraini di essere se stessi, cioè altro dal putinismo. Partire da questo riconoscimento, e dalle garanzie che esso richiede, è la via anche per prendere atto con realismo – un realismo confortato e reso possibile dalla coscienza di aver ottenuto la cosa principale, cioè il diritto alla “autodeterminazione” – del fatto che gli armistizi sono frutto di trattative e di concessioni. E lo sono tanto più se sono armistizi capaci di reggere, cosa che è nell’interesse sia degli ucraini sia dei russi normali, oltre che nostro, anche perché il tempo sovente, anche se non sempre, gioca a favore del bene. L’armistizio permetterebbe tra l’altro agli ucraini di pensare a un voto oggi obbiettivamente difficile ma necessario. E pensarci vuol dire anche immaginare un futuro, e qui i pareri delle persone che ho sentito sono naturalmente diversi. Ma anche tra chi pensa che il tempo di Volodymyr Zelensky finirà con la fine dei combattimenti, e che l’Ucraina ha bisogno di una nuova guida, non ho sentito acredine.
Secondo alcuni, Putin aveva già elaborato nel 2007-2008 un suo piano per l’Ucraina basato su una tripartizione del paese
Naturalmente essendo molti dei miei amici e conoscenti storici, ed essendo storici (ma non solo, vi erano anche archeologi, geologi, economisti, religiosi ecc.) la maggior parte dei partecipanti al convegno, si è finito col parlare molto anche di storia, e soprattutto di quella recente e sono emersi temi e spunti interessanti. Secondo alcuni osservatori acuti e informati, per esempio, Putin aveva già elaborato nel 2007-2008 un suo piano per l’Ucraina basato su una tripartizione del paese che ricorda le spartizioni polacche del Settecento. La parte più occidentale del paese – già assegnata agli Asburgo con le spartizioni settecentesche, finita nel 1918 alla Polonia e poi ottenuta da Stalin nel 1939 col patto Molotov-Ribbentrop e riconquistata nel 1945 – sarebbe dovuta in qualche modo tornare a Varsavia, o all’“Europa”. L’esperienza sovietica aveva infatti insegnato che si trattava di un frutto troppo velenoso, e pare che i diplomatici russi avessero già iniziato a scherzare su una possibilità del genere. L’Ucraina a ovest del Dnipro, con uno status speciale assegnato a una Kyiv dalla sorte incerta, sarebbe diventata il nocciolo di uno “stato superstite” (rump state), una specie di altra Bielorussia, affidata al suo Lukashenka, nella fattispecie lo Yanukovich salito al potere nel 2010. Una rinata Novorossija, con Kharkiv, il Donbas, la costa del Mar Nero, Odessa e la Transnistria, sarebbe invece diventata direttamente parte della Russia. Dietro, oltre all’ingannevole convinzione che tutti i russofoni fossero da considerare automaticamente russi, c’era quella che l’Ucraina e gli ucraini fossero costituzionalmente incapaci di costruire e avere un loro stato, a causa di un qualche difetto congenito cui si faceva sprezzantemente riferimento.
Alla fine del 2013 questo piano era in fase avanzata di realizzazione e Putin pensava di essere vicino alla vittoria. La “Rivoluzione della dignità”, la crisi di fine anno a Kyiv e la fuga di Yanukovich dalla città il 21 febbraio 2014 avrebbero quindi innescato rabbia e delusione, anche nei confronti del proprio fantoccio ucraino che sembrava l’incarnazione della supposta incapacità dei suoi compatrioti. Sono i sentimenti che spinsero Putin alla decisione affrettata di invadere la Crimea dove qualche giorno dopo apparvero i primi soldati russi senza insegne. La penisola fu presto conquistata, rafforzando la sua popolarità, ma creando un nodo diplomatico e giuridico che non sarà facile sciogliere: la strada scelta, forse in base all’ira, sembrò quindi dare molto, ma lo fece generando problemi di lungo periodo di cui anche gli abitanti che ne salutarono il successo stanno già pagando il conto. Poco dopo azioni e dimostrazioni a Kharkiv e Odessa, organizzate anche con l’aiuto di “volontari” arrivati dalla Russia, mostrarono con chiarezza quali fossero gli obiettivi più importanti di Mosca. La reazione di gran parte della popolazione fu però molto diversa da quella ipotizzata e sperata e all’inizio di maggio era ormai evidente che le due città non sarebbero state conquistate senza una grande operazione militare.
Persino nel Donbas le cose non andarono come previsto. Qui una parte minoritaria della popolazione (le stime dei miei interlocutori, alcuni dei quali vivevano e insegnavano a Donetsk, variano dal 15 al 25 per cento) era in effetti nel 2014 favorevole all’annessione alla Russia. Un’altra parte, più grande ma non di molto (il 20-30 per cento) era fermamente pro-ucraina, ma la maggioranza era semmai sentimentalmente “filosovietica”. Essa voleva cioè tornare impossibilmente a un passato che aveva avuto in quel bacino industriale una delle sue regioni di punta, anche ideologicamente e simbolicamente, e aveva nel presente posizioni politiche autonomistiche, in cui Mosca era giocata contro Kyiv per estrarre da quest’ultima concessioni e privilegi. Le scelte e i comportamenti degli autonomisti hanno però aperto la porta ad anni di guerra e all’occupazione russa, e pare che una buona parte di loro, che certo non ha ottenuto quel che sperava, si senta oggi vittima dei suoi errori e delle sue illusioni.
Quanto era ingannevole l’idea che gli ucraini fossero costituzionalmente incapaci di costruire e avere un loro stato
Le scelte di Putin di inizio 2014 precipitarono così l’inizio di una guerra alla quale egli impresse una nuova svolta a inizio 2022. Più che l’ira contò allora una sorta di “grande illusione”: solo essa può spiegare l’azzardo iniziale di febbraio cui sono seguite due sconfitte russe, quella dell’esercito nel 2022 e quella della Wagner nel 2023, e una terribile guerra di attrito che Mosca, con le sue grandi risorse, gestisce più agevolmente di Kyiv ma che ha già fatto tanti morti e feriti e costretto altri milioni di persone a lasciare le loro case e a vivere nella sofferenza.
Queste vittime sono anche la misura di un’altra delle illusioni putiniane: non solo non era vero che tutti i russofoni erano russi (gli sarebbe del resto bastato pensare agli irlandesi), ma non era nemmeno vero che gli ucraini erano costituzionalmente incapaci di farsi uno stato e quindi un esercito. E’ proprio l’esercito che l’ex presidente Poroshenko e i suoi collaboratori, inclusi quelli che non la pensavano come lui, cominciò allora a costruire a costringere oggi Putin e la Russia a una sanguinosa guerra di attrito. Ed è il clima delle città ucraine e la convinzione di tanti ucraini di voler separare i loro destini da quelli di Mosca – una convinzione che questa guerra ha ingigantito – che nutre la capacità di sopportarla.
Poi, certo, le guerre devono finire e finiscono, ed è possibile e augurabile che le elezioni americane di novembre accelerino le cose, e nel senso giusto se le vincesse Kamala Harris. E’ comunque sicuro che il loro esito determinerà in parte la qualità di quell’armistizio, cui contribuiranno anche le scelte britanniche e dell’Unione europea. Di quella qualità sarà possibile giudicare misurandola sui piani elaborati e attuati da Putin tra il 2007 e il 2014, oltre che sui suoi ideologici e roboanti testi precedenti l’invasione del 2022. Quanto più le condizioni dell’armistizio saranno lontane dagli obiettivi dei primi, tanto più avrà prevalso il desiderio degli ucraini di decidere del loro destino, al di là del prezzo che hanno pagato e pagheranno per realizzarlo.