Sulla via di Damasco
L'Italia lascia il gruppo Onu che monitora i diritti umani in Siria
Dopo la nomina dell'ambasciatore a Damasco, via dal Core Group di Ginevra. E le safe zone per rimpatriare i siriani diventano questione di sicurezza nazionale. Le pressioni della Chiesa e i viaggi dei servizi. La normalizzazione di Assad è a buon punto
Il cammino dell’Italia verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con la Siria di Bashar el Assad procede spedito. Dopo aver nominato un ambasciatore a Damasco lo scorso luglio – unico fra i membri del G7 e dell’Ue – da ieri Roma si è silenziosamente ritirata dal gruppo ad hoc dell’Onu che monitora il rispetto dei diritti umani in Siria. Da anni il nostro paese faceva parte del Core Group di Ginevra insieme a una cerchia ristretta di stati molto influenti sul dossier siriano.
Fra questi ci sono Francia, Germania, Olanda, Qatar, Turchia, Stati Uniti e Regno Unito. Ma nella bozza di risoluzione approvata ieri in vista della 57esima sessione del Consiglio dell’Onu per i diritti umani, l’Italia non compare più tra i firmatari. A quanto risulta al Foglio, il passo indietro era nell’aria da tempo e ora è stato formalizzato. “La decisione del governo italiano è vergognosa e dimostra ancora una volta – soprattutto alla luce della nomina del nuovo ambasciatore a Damasco – che l’Italia non ha alcun interesse ad assicurare il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale”, spiega al Foglio Ranim Ahmed, direttore della comunicazione del gruppo per i diritti umani dell’ong Syria Campaign. “Andrebbe ricordato all’Italia che ogni passo compiuto per stringere la mano al dittatore siriano infrange sia le sentenze dei tribunali europei, come quella della Francia che ha emesso un mandato di arresto internazionale contro Assad, sia della Corte internazionale di giustizia”.
“Abbiamo voluto dare un segnale di una crescita dell’attenzione. Non si può lasciare ai russi e ad altri il monopolio di una situazione”, aveva spiegato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, commentando la nomina di Stefano Ravagnan come nuovo ambasciatore a Damasco. “L’ambasciata non è mai stata chiusa. Oggi l’incaricato d’affari è a Beirut e va ogni tanto”, aveva aggiunto per ridimensionare la portata della nomina di Ravagnan. Ma ora la decisione di lasciare il Core Group va nella direzione opposta e rischia di privare il nostro paese di un ruolo riconosciuto in ambito internazionale come interlocutore sulla crisi siriana. Per Veronica Bellintani, esperta legale del Syrian Legal Development Programme, la mossa “manda il messaggio che l’Italia è disposta a ignorare gravi crimini come tortura, omicidi e oppressione sistematica in nome del pragmatismo politico e della convenienza”.
E’ così o c’è altro? Il processo di riavvicinamento è stato accelerato in questi mesi con un’ulteriore decisione da parte del governo italiano, quella di diventare il pivot di un gruppo ristretto di stati Ue per creare zone di sicurezza all’interno della Siria dove rimandare i migranti siriani scappati in Europa. Del dossier – molto delicato, visto che per l’Onu la Siria è ancora un paese a tutti gli effetti in guerra – si occupano la Farnesina, quindi lo stesso Ravagnan, ma anche il ministero dell’Interno. Per il governo, la normalizzazione delle relazioni con il regime riguarda anche la sicurezza nazionale. A oggi, i siriani sono la seconda nazionalità tra i migranti sbarcati sulle nostre coste attraversando il Mediterraneo, 8.061 persone dall’inizio dell’anno. Inevitabile che il Viminale assumesse la gestione di una parte del progetto. A maggio, a Nicosia, l’Italia ha inviato un rappresentante a un summit di sette ministri dell’Interno di paesi dell’Ue. Il gruppo è guidato da Cipro, che lamenta un flusso di profughi siriani sulle sue coste e in fuga dal Libano ormai ingestibile. Nicosia ha reiterato l’invito alla Commissione Ue di rivedere la strategia nei confronti di Assad e facilitare il ritorno dei migranti in Siria. Bruxelles è divisa fra chi, come l’Alto rappresentante Josep Borrell, ritiene di dovere rispettare le risoluzioni dell’Onu, e chi invece, come la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, sostiene che qualcosa debba cambiare nelle relazioni con Assad.
Tra le voci più insistenti per normalizzare le relazioni fra l’Italia e la Siria c’è quella della Chiesa cattolica. Lo scorso giugno, il segretario di stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, si era recato in visita in Libano, dove ha visto il dramma umanitario di un paese di appena 5 milioni e mezzo di abitanti che accoglie quasi 2 milioni di profughi siriani. “Dalla Siria fuggono ogni giorno in centinaia tra professionisti e laureati. Si sta creando un vuoto da colmare”, spiega al Foglio il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco. Difficile, viste le ritorsioni del regime contro chi ha provato a rientrare in patria. “Ma ogni rientro deve avvenire alle condizioni dettate dall’Onu, su base volontaria, in sicurezza e dignità”, chiarisce Zenari. Dopo il terremoto del 2023, il mondo cattolico – come Sant’Egidio e Aiuto alla Chiesa che soffre – ha aumentato la pressione sul governo italiano affinché rimuovesse almeno in parte le sanzioni economiche contro il regime. Sia il Vaticano sia la Farnesina non sono sordi a simili appelli. Secondo quanto risulta a due fonti sentite dal Foglio fra Roma e Damasco, a maggio un rappresentante dei servizi segreti italiani avrebbe incontrato il suo omologo siriano e lo stesso Assad a Damasco. Si sarebbe discusso della creazione delle safe zone in Siria in cambio della rimozione delle sanzioni al regime. Una notizia analoga era stata riportata dall’emittente dell’opposizione siriana basata in Turchia, Syria Tv, ma era stata smentita dal governo italiano. Un mese dopo il presunto incontro è arrivata la nomina di Ravagnan come nuovo ambasciatore.