L'editoriale dell'elefantino
Il problema in medio oriente non è Netanyahu, ma il sonnellino politico di Biden
Il fatto che Washington abbia una linea di continuità amministrativa ma non una influente capacità politica, alla vigilia delle elezioni, è un bel guaio
Dall’American dream all’American nap. Il sonnellino americano spaventa. Biden confessa di non avere più tempo utile per definire una politica mediorientale efficace, Casa Bianca in scadenza. Harris e Trump devono vedersela con gli imperativi della campagna elettorale, con le sue demagogie divisive sul filo del collegio elettivo da conquistare. Si era detto che tutto dipendeva dalle esigenze politiche personali di Netanyahu, invece si vede benissimo che le esigenze elettorali e la lotta politica estrema dettano l’assenza di una linea chiara degli Stati Uniti su tutto, il cessate il fuoco, l’escalation e la de-escalation, Gaza e il fronte del nord. E questo malgrado il ruolo decisivo non solo di geografia politica mondiale, ma di intervento a deterrenza dell’apparato militare del Pentagono, che non sopporta pause o tregue di riposo. Netanyahu, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, deve dirigere un paese attaccato e in guerra da un anno, su sette fronti due dei quali apertissimi, e per interventi dissuasivi e preventivi occorre ovviamente la stabilità di un esecutivo costituzionalmente in carica in seguito a libere elezioni. Sono cose che sfuggono, stando all’incredibile quantità di scemenze che si ascoltano nel circuito mediatico-umanitario, ma non ai mullah di Teheran, agli Hezbollah, a Sinwar, vivo o morto, agli altri proxy della barbarie del 7 ottobre.
Si fa un gran dire e disdire della fragilità delle democrazie. La siesta nordamericana dice che una messa a punto istituzionale dei meccanismi di decisione e di intervento, nelle grandi crisi, sarebbe forse necessaria, sopra tutto adesso che l’elemento bipartisan, chiave della politica estera e di sicurezza Usa per decenni, è in pezzi. Certo le portaerei all’àncora e altri sistemi diplomatici e militari fanno la loro parte, anche nei conati di trattativa sulla tragedia degli ostaggi a cui Hamas si permette di non partecipare direttamente, e non c’è formalmente vacanza di potere, ma è insensato rimproverare a Israele la conduzione strategica della sua guerra di difesa dall’oltraggio e dalla minaccia mentre l’elemento di propulsione e leadership dell’occidente ha il freno tirato. In Europa si fa presto a dichiarare, come gli spagnoli, come qualche italiano, che serve ritegno, tanto non è decisiva l’influenza dell’Unione europea sui fronti della deterrenza. Ci si può anche permettere di definire “terroristica” la tecnologia che colpisce personalmente i titolari, miliziani e terroristi, dei beeper e dei walkie-talkie in uso a Hezbollah, non costa niente e fa figura in tutte le lingue del mondo onusiano. Il sonno americano ha molte spiegazioni, l’età di Biden, il cambio di cavallo in corsa della candidatura, l’erraticità maligna di Trump, il calendario democratico irrinunciabile, eppure è politicamente una debolezza che si ripercuote su tutti e su tutto.
Gli europei, e tra questi gli italiani, dovrebbero compensare questo punto di fragilità del sistema occidentale risolvendosi ad abbandonare le giaculatorie a proposito dei negoziati, del cessate il fuoco permanente e dei limiti da imporre al diritto di difesa di Israele e di Tsahal e dell’intelligence. Il fatto che il premier di Gerusalemme risalga nei sondaggi non è dirimente, la questione non è quella. Ma il fatto che Washington abbia una linea di continuità amministrativa ma non una influente capacità politica, alla vigilia delle elezioni, è un problema per tutti. E’ un problema della guerra e della pace, che non si costruiscono, né l’una né l’altra, sonnecchiando in attesa di chissà che cosa.