In America
Il “Black Nazi” della Carolina del nord che fa disperare certi trumpiani
Il candidato repubblicano Donald Trump non pronuncia mai il nome di Mark Robinson durante il comizio a Wilmington e cerca in questo modo di far dimenticare gli scandali del vicegovernatore
Per avere un quadro preciso della controversia che sta montando, conviene provare a spiegare cos’è lo stato del North Carolina: consideratela un’America al quadrato, una superAmerica, pregi e difetti compresi. Dal lato positivo, la buona vita, la qualità di una provincia, soprattutto bianca, dove regnano benessere, prospettive, sicurezza, in una società equilibrata, con uno scenario naturale di prim’ordine, città a misura d’uomo, Charlotte, Raleigh, Wilmington, e formidabili istituzioni accademiche, UNC e Duke in testa. Insomma l’America come i padri avrebbero pensato giusto che crescesse e maturasse il paese, nel profondo spirito di un nazionalismo felice e consapevole. Sull’altro versante è uno degli stati in cui i primi segni di una frattura nel meccanismo sociale americano si sono resi visibili, sotto forma di un sistema che, a contatto con la modernità, ha preso a chiudersi in se stesso, a rifiutare e sospettare, talvolta agonizzando con lo sguardo volto al passato: per rappresentare questo ritrarsi basterebbe riesumare l’istituzione nel 2016, proprio nell’apparentemente pacifico stato della Carolina del nord, del “bathroom bill”, il decreto che imponeva l’utilizzo dei gabinetti pubblici a seconda del proprio genere alla nascita, con relativa feroce ribellione della comunità transgender e conseguente guerra culturale che avrebbe scosso alle fondamenta la società locale e nazionale (questione ampiamente revisionata un paio d’anni più tardi dalla Corte federale).
Altresì è chiaro come le oscillazioni politiche contenute nella contrapposizione città-campagne, democratici-repubblicani sembrino oggi il termometro di un consesso instabile, destinato a divenire terra di conquista delle campagne presidenziali, a latere di una prevalenza conservatrice in uno stato che però undici nelle ultime dodici volte ha scelto come governatore un democratico, l’ultimo il moderatissimo Roy Cooper. Qui nel 2012 Barack Obama perse di due punti con Mitt Romney, Trump nel 2016 sbaragliò Hillary Clinton e Joe Biden venne sconfitto di un’incollatura dal presidente uscente, Donald Trump. Un quadro storico che, a fronte della muscolare campagna elettorale di Trump-2024 ha fin qui convinto i repubblicani a considerare per conquistati i 16 voti elettorali della North Carolina, bottino indispensabile per legittimare le aspirazioni di Trump di tornare nello studio ovale.
È a questo punto che entra in scena il vicegovernatore Mark Robinson, che se vogliamo attribuirgli un paragone, costituisce la più corpulenta e imbarazzante delle mine vaganti, per ciò che concerne quanto accadrà a queste latitudini da ora al 5 novembre, fatale giorno del voto americano. Peraltro Robinson in queste settimane è lui stesso in corsa per la poltrona da governatore dello stato, sebbene assai attardato nei confronti dell’avversario, il procuratore generale Josh Stein, a dispetto della sponsorizzazione ufficiale di Trump, con tanto di etichetta (di dubbio gusto) accordata alla sua candidatura: Mark Robinson, secondo l’ex presidente, sarebbe una versione vitaminizzata di Martin Luther King jr. Beata la faccia tosta di chi, in atmosfera elettorale, ne spara di così monumentali. Il fatto è che al riguardo c’è una sintonia tra i due personaggi: come a Trump, il racconta-frottole che parla di haitiani e cuccioli arrosto, anche a Robinson piace da morire esporre concetti deliranti e pronunciare frasi a effetto capaci di garantirgli strepiti e una marea di mascelle penzolanti: nelle sortite pubbliche che hanno trasformato questo ex operaio di un mobilificio in attrazione della politica della Carolina, Robinson ha bollato gli omosessuali come “feccia” (“i gay sono quello che si lasciano dietro le mucche”), ha messo in discussione qualsiasi diritto di aborto, ha citato Hitler su Facebook quanto alla difesa della razza, ha etichettato come “comunisti” gli studenti che sfilavano dopo la strage di Parkland, si è guadagnato la stima imperitura dei fabbricanti d’armi (che hanno provveduto a ripagarlo sotto forma di finanziamenti) esaltando la necessità degli americani di armarsi ancor di più. Poi ha fatto di meglio: nel corso delle sue visite su “Pornhub” si è presentato definendosi un “Black Nazi”.
Con l’arroventarsi delle corse elettorali questa immondizia è salita a galla (le principali sono spuntate su Cnn), le smentite sono sembrate una formalità e il primo interrogativo a manifestarsi è stato: cosa diamine è venuto in mente agli strateghi di Trump nel permettergli di legarsi a un personaggio così, che potrebbe costargli una sconfitta in North Carolina? Qualcuno ha ipotizzato che l’idea fosse di andare in cerca di preferenze nella comunità afroamericana conservatrice, disposta a dar retta alle sue promesse e incline a sopportare le stupidaggini pronunciate da Robinson. Quel che è certo è che sabato scorso Trump ha fatto tappa nel North Carolina per un comizio a Wilmington e, al cospetto dello scandalo che sta travolgendo Robinson, s’è guardato bene anche solo dal pronunciare il suo nome nel corso di un’ora di chiacchiere (e in platea non c’era traccia di Robinson, che pure è un habitué dei comizi del boss).
Gli osservatori sottolineano come la benpensante North Carolina sia tutt’altro che nuova agli scandali in odore d’elezione, a cominciare da quelli che travolsero il democratico John Edwards – senatore a Washington in rappresentanza dello stato – nelle primarie del 2008 contro Obama, allorché saltò fuori la sua infedeltà coniugale nei confronti di Elisabeth, la consorte che versava in fin di vita. Perciò a questo punto azzardiamo una previsione: Robinson sprofonderà nelle sue nefandezze, ormai trattato come un appestato dai suoi stessi compagni di partito. E Trump? I più ottimisti tra i repubblicani gettano acqua sul fuoco: la Carolina del nord anti progressista e scettica di fronte al passaggio di testimone Biden-Harris, voterà per Trump nonostante più si preoccuperà. L’opinionista conservatrice per Cnn Margaret Hoover tranquillizza i suoi supporter: “Non credo che Trump verrà bruciato sulla stessa pira che aspetta Robinson. I sostenitori del Maga continueranno a credere in lui, chiunque sia il candidato repubblicano per la guida dello stato”. All’insegna del più puro cinismo elettorale, “Dimenticare Robinson” pare lo slogan degli sforzi che andranno spesi per assicurarsi lo stato. Mentre Kamala Harris, ovviamente, non farà altro che parlarne, parlarne, parlarne.