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L'editoriale del direttore

Il collasso del modello tedesco è una lezione sui vizi dell'Europa

Claudio Cerasa

Commercio, banche, infrastrutture, immigrazione, gravi deficit in politica estera. Da locomotiva a fanalino di coda. Non c’è più un buon giudice a Berlino

Se non ci fossero delle vere guerre in corso, verrebbe quasi la tentazione di chiamarlo un bollettino di guerra. Non lo si può chiamare così, naturalmente, visti i tempi che corrono, ma se si ha la pazienza di osservare in questi giorni la cronaca quotidiana di quella che era la locomotiva d’Europa, ovvero la Germania, e di quella che è diventata oggi la zavorra del continente, con rispetto parlando, la sensazione resta quella: è la storia di un collasso, è la fine di un modello, è l’immagine cristallina di quello che succede quando finisce una stagione, una stagione di guida dell’Europa, e non si ha nulla di decente da mettersi addosso per non farsi trovare nudi, esposti alle intemperie, vulnerabili ai ricatti dei peggiori populisti su piazza.

Qualche dato, qualche elemento di cronaca, per capire di cosa stiamo parlando. Ieri mattina, il quotidiano economico Handelsblatt ha reso noto che la Volkswagen, dicasi la Volkswagen, ha distribuito ai dipendenti di suoi sei stabilimenti in Germania un volantino in cui spiega perché dovrebbe adottare un “programma di austerità” per salvare l’azienda. Nella stessa giornata di ieri, l’Istituto per la ricerca economica Ifo ha diffuso i dati sulla fiducia delle aziende tedesche (il risultato è un calo dell’1,2 per cento rispetto al mese precedente) e ha commentato la fase economica della Germania con queste parole: “Le prospettive per i prossimi mesi continuano a essere fosche, l’intera economia tedesca è sottoposta a una pressione crescente, nel settore manifatturiero l’indice è sceso al valore più basso dal giugno del 2020, le aziende valutano la loro situazione attuale nettamente peggiore e anche le aspettative sono decisamente più pessimistiche e i settori chiave dell’industria tedesca sono in estrema difficoltà”. Nella stessa giornata, la Bild ha reso noto che i principali istituti di ricerca economica prevedono di correggere al ribasso la crescita del prodotto interno lordo tedesco e oggi dovrebbe essere annunciato che il pil della Germania si abbasserà dello 0,1 per cento entro la fine dell’anno, dopo aver previsto una crescita zero all’inizio di settembre.

A tutto questo, poi, si può aggiungere molto altro. Si può aggiungere la crisi politica del governo tedesco, che sente il fiato sul collo del partito più pericoloso che esiste oggi in Europa, i neonazisti dell’AfD. Si può aggiungere la crisi politica del centrodestra tedesco, che quattro anni dopo l’addio di Angela Merkel non ha fatto altro che triturare successori. Si può aggiungere la crisi politica dei Verdi, che prima hanno ingabbiato la Germania costringendo il paese a rinunciare al nucleare negli stessi mesi in cui la Germania perdeva l’accesso al gas russo a buon mercato e i cui vertici ieri, i vertici del direttivo, si sono dimessi in massa. Si può aggiungere il fatto che uno dei fiori all’occhiello del paese, l’industria automobilistica, sta affrontando una delle crisi più incredibili della sua storia, e i dati di vendita del mese di agosto sono stati tra i più sconfortanti di sempre, con le vetture elettriche crollate del 68,8 per cento rispetto alle immatricolazioni dello stesso mese del 2023.

Si può aggiungere a tutto questo il crollo continuo dell’export tedesco, che ha fatto registrare meno 6,3 punti a settembre dopo il meno 5,2 di agosto, e anche qui la Germania sconta il collasso di un modello, il modello di un paese che aveva scommesso, per dare linfa alle sue imprese, sul gas a basso costo dalla Russia, cosa che non vi è più, e sul commercio infinito con la Cina, ancora oggi  primo partner commerciale della Germania, con un interscambio bilaterale di 250 miliardi di euro, che si trova però a una quota vicina al meno 15,5 per cento rispetto all’anno precedente. Si può aggiungere a tutto questo che uno dei fiori all’occhiello del settore industriale tecnologico tedesco, Wirecard, grande società di pagamenti online, giusto quattro anni fa è finita in bancarotta, a causa di un buco di 1,9 miliardi di euro che non aveva dichiarato.

Si può aggiungere a tutto questo il fatto, a proposito di banche, che uno degli istituti di credito più famosi del mondo, Deutsche Bank, si trova al centro di una crisi clamorosa ormai da anni: a febbraio, ha annunciato che avrebbe tagliato 3.500 posti di lavoro, il 4 per cento dei suoi dipendenti, e oggi le sue azioni valgono la metà rispetto a dieci anni fa (nel 2014, un’azione di Deutsche Bank valeva 34 euro, oggi ne vale 15; un’azione di Intesa Sanpaolo nel 2014 valeva due euro, oggi ne vale quasi quattro; un’azione di Unicredit nel 2014 valeva 27 euro oggi ne vale 38: sia Intesa sia Unicredit hanno quasi il doppio della capitalizzazione di Deutsche Bank e quasi il quadruplo della capitalizzazione di Commerzbank). Si può aggiungere a tutto questo anche qualche altro record negativo che riguarda la Germania industriale, e che coincide anche con l’universo degli aerei, perché è vero che la Germania, via Lufthansa, si è comprata Ita, ma è anche vero che il livello reputazionale del sistema aeroportuale e del sistema aereo tedesco è ai minimi storici: Francoforte è lo scalo europeo con la media di ritardi più alta e la stessa Lufthansa è al decimo posto tra le compagnie con più ritardi in Europa (per non parlare del trasporto su rotaia: a giugno, secondo un’inchiesta della Bild, solo il 52 per cento dei treni a lunga percorrenza è arrivato a destinazione in orario, con un ritardo inferiore ai sei minuti).

Arriviamo poi ai nostri giorni, alle nostre ore, e a tutto quello che abbiamo elencato dobbiamo aggiungere altre crisi, che sono insieme sistemiche, politiche, economiche e culturali. La prima crisi, che è più forse una crisi di identità, riguarda il ruolo smarrito dalla Germania come motore dell’Europa e quel motore è andato smarrito in modo plastico il giorno in cui il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha detto, ad agosto, che avrebbe tagliato i fondi aggiuntivi previsti per l’Ucraina per “esigenze di bilancio”. La seconda crisi, una crisi dal valore simbolico niente male, è quella che si è andata a innescare nel momento in cui il governo tedesco, per cercare di contenere la crescita dell’estremismo di destra, non ha trovato nulla di meglio da fare che inseguire l’estrema destra sul fronte dell’immigrazione, arrivando a compiere la scelta più anti europeista possibile, e annunciando cioè la chiusura dei confini, la sospensione di Schengen, il blocco della libera circolazione in Europa. La terza crisi, una crisi insieme di credibilità e di reputazione, è quella che si sta manifestando in questi giorni attorno al caso incredibile della lenta scalata di Unicredit a Commerzbank; lenta scalata iniziata con l’acquisizione da parte di Unicredit di una quota della banca appartenente proprio al Tesoro tedesco, salutata dal cancelliere Olaf Scholz con queste parole, riportate da Reuters lunedì scorso: “Attacchi non amichevoli [e] acquisizioni ostili non sono una buona cosa per le banche ed è per questo che il governo tedesco si è chiaramente posizionato”.

La Germania di Scholz, in altre parole, non è diventata solo uno degli elementi di fragilità dell’Europa ma è diventata tutto quello che ha sempre combattuto: è diventata un ostacolo non solo alla nuova condivisione del debito, cosa che è sempre stata, ma anche alla libera circolazione dei capitali in Europa, anche alla libera circolazione dei cittadini in Europa, anche alla promozione della neutralità tecnologica in Europa, anche alla costruzione di nuove forme di sostegno per aiutare una democrazia aggredita, come quella ucraina, da un regime che sogna di spazzarla via. La Germania, in Europa, resta ancora, per ovvie ragioni, un simbolo della lotta contro l’antisemitismo, e non è poco. Ma Israele a parte quando si osserva la Germania, la sua evoluzione, la sua traiettoria, oltre a metterci le mani nei capelli, pensando a tutto quello che rischia l’Italia dall’avere una Germania economicamente debole (la Germania, per gli smemorati, rimane il nostro principale partner economico, sia in termini di export, 74,6 miliardi, sia di import, 89,7 miliardi, con una partnership complessiva che nel 2023 ha raggiunto il valore di 164,3 miliardi) viene da dire che piuttosto che esultare per le difficoltà di un paese strategico anche per l’Italia occorrerebbe trasformare la Germania nello specchio perfetto di tutto ciò che si rischia in Europa quando si sceglie di affidarsi troppo ai paesi canaglia (Russia), quando si sceglie di affidarsi troppo ai paesi inaffidabili (la Cina) e quando si sceglie la scorciatoia sovranista (migranti, banche) per provare a tamponare i problemi interni. La locomotiva d’Europa è diventata tutto il suo contrario, è diventata tutto quello che ha sempre combattuto, e vedere oggi i sovranisti di un tempo, quelli italiani, preoccupati per l’europeismo farlocco degli amici tedeschi non è sufficiente per metterci di buon umore ma per strapparci un sorriso, sì.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.