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L'Onu si è rotta: il tempio del multilateralismo non funziona ma non sa come riformarsi

Giulia Pompili

I blocchi al Consiglio di sicurezza, i boicottaggi all’Assemblea generale.  L’America ha un’idea (africana) che però è contrastata (anche dall’Italia)

Seattle, dalla nostra inviata. A New York, in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, si è tenuta martedì sera anche una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza sull’Ucraina. Alla presenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il segretario di stato americano Antony Blinken ha fatto uno dei discorsi più chiari e duri sulla Russia sin dall’inizio della sua guerra d’invasione contro l’Ucraina che, secondo Blinken, “ha fatto a pezzi i princìpi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite – sovranità, integrità territoriale e indipendenza”. Poco prima il rappresentante permanente di Mosca all’Onu, Vasily Nebenzya, aveva preso il microfono e fatto una dichiarazione fuori programma, sostenendo che “l’unica ragione per cui hanno convocato questa riunione è quella di fornire al presidente ucraino Zelensky l’ennesimo palcoscenico”. Poi era tornato a guardare i fogli davanti a sé. Blinken ha detto che il primo problema da affrontare, per ristabilire la pace, è “la crescente cooperazione della Russia con la Corea del nord e l’Iran”. Due paesi che aiutano la Russia nella sua guerra, ma ci guadagnano in armamenti e protezione politica, in una spirale destabilizzatrice globale.  Pyongyang e Teheran non sono i soli: per la prima volta il segretario di stato americano ha indicato anche la Cina, “altro membro permanente di questo Consiglio”, come facilitatore della guerra in quanto fornitore di materiali e componenti per l’industria bellica russa (ieri uno scoop di Reuters, citando fonti d’intelligence, sosteneva che Mosca avrebbe addirittura stabilito un programma per lo sviluppo di armamenti dentro al territorio cinese).

 

Ma come può funzionare una piattaforma di sicurezza se uno dei suoi membri permanenti con diritto di veto è un paese aggressore, la Russia, e un altro, la Cina, il suo principale partner e sponsor? A due anni dall’inizio della guerra dell’Ucraina da parte della Russia, la crisi in medio oriente e il conflitto fra Israele e Hezbollah nel nord del Libano, mai come in questa edizione dell’Assemblea generale si è parlato della necessità di riformare il funzionamento dell’Onu. 

 

A parlarne per primo, e piuttosto esplicitamente, è stato il presidente del Kenya William Ruto, seguito poi da quello sudafricano Cyril Ramaphosa. Nel suo discorso alle Nazioni unite, Ruto ha detto che il sistema multilaterale così com’è, e nello specifico il rito annuale dell’assemblea, semplicemente non funziona. Non è l’unico a pensarlo, anche tra i diplomatici che lavorano nel quartier generale di New York: il mondo è cambiato, le autocrazie hanno un’agenda che quasi mai è condivisa soprattutto dai paesi occidentali e democratici. Ormai da qualche anno il rito delle riunioni di settembre, con i leader dei centonovantatrè paesi membri dell’Onu che si riuniscono, è un passaggio iperburocratizzato (e il microfono spento alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per aver sforato di qualche secondo i cinque minuti previsti ne sono una dimostrazione) che a oggi serve non tanto per negoziare una politica comune, ma per organizzare incontri e bilaterali. 

 

Il problema principale, però, resta il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, cioè il suo braccio operativo. E l’ha detto pure la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, parlando con i giornalisti fuori dal Palazzo di vetro: il tema di discussione di quest’anno riguarda senza dubbio la riforma del Consiglio di sicurezza. E i primi passi concreti per una riforma sono già stati negoziati su iniziativa americana, con la votazione lunedì scorso del “Patto per il futuro”, un testo in cui i paesi membri s’impegnano, tra le altre cose, a dare una rappresentanza globale dentro al Consiglio – testo boicottato da Russia, Iran, Corea del nord, Bielorussia, Siria e Nicaragua. 

 

Ma la questione è molto più specifica. Soltanto una settimana fa, l’ambasciatrice americana all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, ha ufficializzato la posizione degli Stati Uniti su un progetto di riforma che potrebbe essere l’eredità dell’Amministrazione Biden al più importante organo del multilateralismo. Washington è pronta a mettere su carta e avviare un processo di riforma radicale del funzionamento del Consiglio di sicurezza, ha detto Thomas-Greenfield, che prevede anche “dei cambiamenti chiave nella sua composizione”: gli Stati Uniti vorrebbero creare due seggi permanenti per gli stati africani nel Consiglio e un seggio eletto per i piccoli stati insulari in via di sviluppo, e questi si aggiungono “ai paesi che da tempo sosteniamo per i seggi permanenti: India, Giappone e Germania”. Anche la Russia da tempo sostiene una riforma del Consiglio, e già l’anno scorso il Cremlino sosteneva l’ingresso di alcuni paesi in via di sviluppo fra Africa, Asia e America latina, “dato l’emergente ordine mondiale multipolare”. Come la Repubblica popolare cinese, però, anche la Russia da sempre si oppone all’ingresso di Germania e Giappone. E’ anche questo il motivo per cui quest’anno l’America ha deciso di negoziare, intanto, sull’ingresso dei paesi africani, ma senza il diritto di veto che hanno i cinque paesi membri originari, e cioè Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti. Un ingresso depotenziato, insomma, e di due paesi che nella proposta americana dovrebbero essere scelti dagli africani stessi – anche questo un problema, ha detto  a Voice of America Patrick Agbambu della Security Watch Africa Initiative, perché “l’Africa non ha un fronte unito; non ha una voce comune per poter spingere due paesi in avanti”, e non esiste un sistema di elezione di questo tipo: seguendo la logica dei giganti economici, la scelta dovrebbe cadere su Sudafrica e Nigeria, ma non è detto che tutti i 54 membri dell’Unione africana siano d’accordo.

 

Secondo diversi esperti, tra cui Rama Yade, direttrice dell’Africa center dell’Atlantic Council, la mossa di portare al tavolo dell’Assemblea di questi giorni una proposta concreta sulla riforma del Consiglio di sicurezza da parte dell’America riguarda soprattutto il bilanciamento dell’influenza che la Russia, ma soprattutto la Cina, negli scorsi anni hanno ottenuto in Africa, sul piano economico ma anche politico. L’annuncio di ieri, a sorpresa, di un viaggio in Angola che il presidente americano Joe Biden compirà per la prima volta il mese prossimo va in questa direzione. “Gli Stati Uniti stanno facendo un passo coraggioso nell’annunciare il loro sostegno a due seggi permanenti per l’Africa, un passo che l’Unione africana ha formalmente richiesto dal 2005”, ha scritto Yade. “Né la Russia né la Cina, nonostante si atteggino a migliori difensori degli africani, sono arrivate a tanto. Per anni questi due paesi, in qualità di membri permanenti del Consiglio di sicurezza, hanno sostenuto l’erroneo nome di Sud globale senza mettere sul tavolo nulla di concreto o cedere le proprie prerogative all’interno dell’organo più potente del sistema delle Nazioni Unite”. La strada non è facile. Il primo paese occidentale a opporsi all’allargamento all’Africa del Consiglio di sicurezza dell’Onu è l’Italia. La premier Meloni ha detto di essere contraria a fare riforme che creano “nuove gerarchie”, fatte per “accontentare qualcuno e magari escludere i più”. Una posizione chiara quindi, a dir poco disallineata rispetto alla proposta di Washington: “Una delle proposte che sosteniamo è quella di creare nuovi seggi regionali a rotazione”, ha detto Meloni, che “consentirebbe di rappresentare tutti”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.