medio oriente

Le minacce e le trattative tra Israele e Hezbollah

Micol Flammini

Il gruppo libanese spara un missile contro Tel Aviv, Tsahal dice di essere pronto a un'operazione di terra, ma dagli Stati Uniti offrono una via di uscita: una tregua di ventuno giorni per raggiungere un accordo più ampio. I mediatori, le opzioni, le polemiche

Il gruppo libanese Hezbollah ha lanciato un missile contro Tel Aviv, mostrando di essere pronto a infrangere una nuova linea rossa: quella di non arrivare fino alla parte centrale del territorio israeliano. Il missile era diretto verso il quartier generale del Mossad, era un Qader 1 ed era  la risposta all’esplosione dei cercapersone e dei walkie-talkie che la scorsa settimana sono scoppiati nelle mani degli uomini del gruppo durante un’operazione attribuita a Israele. Il missile è stato intercettato, a Tel Aviv non ci sono stati danni. Tsahal ha richiamato due brigate di riservisti, il gabinetto di sicurezza si è riunito per prendere delle decisioni dopo che Hezbollah, per la prima volta, ha sparato contro la città. Tutti devono stabilire dove bisognerà andare: o una guerra con un’operazione di terra o continuare con gli scambi  logoranti da una parte all’altra del confine e con un conto delle vittime sempre più pesante –  nel sud del Libano, in seguito ai bombardamenti contro i depositi di armi  di Hezbollah, sono morte più di settecento persone – o negoziare. 


Il capo dell’esercito, Herzl Halevi, ha detto che per l’operazione di terra è tutto pronto, ai suoi uomini appostati al confine nord ha spiegato: “Sentite gli aerei sopra alle vostre teste, stiamo attaccando tutto il giorno per preparare il vostro ingresso e continuare a colpire”. Non è soltanto Israele a dover decidere in cosa trasformare i prossimi giorni, la vera risposta, in questo momento, spetta al gruppo libanese che di solito accompagna i bombardamenti alle dichiarazioni, e invece sembra guardarsi attorno, indeciso, forse in attesa dei suoi alleati-creatori. Ieri, la Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, ha scritto su X un messaggio al gruppo che Teheran ha  armato negli anni: “Hezbollah sta vincendo”. L’Iran in realtà non si è mosso, ha condannato le operazioni israeliane, ma al di là delle parole di Khamenei che sembrano di incoraggiamento non crede sia il momento di buttarsi in modo aperto nel conflitto. Secondo indiscrezioni della stampa israeliana, Hezbollah avrebbe chiesto all’Iran di unirsi ai combattimenti, ma Teheran avrebbe risposto che non è il momento. La Repubblica islamica ha lasciato una minaccia in sospeso contro Israele: ha promesso di vendicare l’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh, eliminato a luglio mentre si trovava a Teheran dentro a un palazzo gestito dai pasdaran e riservato agli ospiti d’onore, ma non ha mai realizzato la sua vendetta. Secondo gli Stati Uniti, prima o poi l’Iran reagirà, ma sarà la sua risposta contro Israele e non l’intervento al fianco dei bombardamenti degli Hezbollah, che adesso, con il loro leader, Hassan Nasrallah, si trovano a dover decidere fino a che punto portare avanti la guerra e quindi quali conseguenze accettare dentro al Libano. Lunedì, mentre Israele iniziava i bombardamenti nel sud del Libano,  mentre saliva il conto delle vittime e saltavano in aria i depositi di armi di Hezbollah, in cui erano stipate anche armi iraniane, il presidente della Repubblica islamica, Massoud Pezeshkian, appena arrivato negli Stati Uniti, diceva che Teheran non è intenzionato ad avere una guerra ampia contro Israele: il messaggio non era tanto per lo stato ebraico, ma era per Nasrallah e voleva dire che avrebbe dovuto vedersela da solo. 


Gli Stati Uniti stanno offrendo una via di uscita e stanno approfittando della presenza della maggior parte dei leader a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite per lavorare a una proposta di cessate il fuoco che porti a interrompere i combattimenti per alcune settimane e rianimi anche le trattative per un accordo sul rilascio degli ostaggi e la tregua nella Striscia di Gaza. Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu è partito per gli Stati Uniti e nelle ore della sua assenza le sue mansioni saranno svolte dal ministro degli Esteri Israel Katz, mentre  ha incaricato Ron Dermer, ministro degli Affari strategici, di gestire i colloqui per una trattativa sul fronte nord. Il presidente americano Joe Biden ha detto che “una guerra su vasta scala in medio oriente è possibile”, aggiungendo le sue parole alla pressione generata dal discorso di Halevi. Le parole scoperte durante negoziati coperti servono spesso a ottenere una trattativa vantaggiosa e secondo fonti di Reuters, dopo la notizia di un possibile cessate il fuoco, anche Hezbollah avrebbe dimostrato un interesse a una trattativa “che includa Gaza e Libano insieme”. Gli Stati Uniti vedono una strada per allentare la tensione, non per risolverla, ma per fare in modo che le parti si parlino per evitare una guerra che l’Amministrazione americana teme molto di più di quella a Gaza, e nelle trattative ha coinvolto come mediatori anche la Francia e il Libano, un paese sfinito, che non vuole la guerra: il premier Najib Mikati è a New York e ha detto che saranno ore importantissime. Un conflitto tra Israele e Hezbollah sarebbe devastante a causa della portata degli arsenali dei due eserciti e avrebbe la capacità di diventare una questione regionale molto di più di Gaza. L’Iran ha dimostrato al gruppo sciita che in un conflitto sarebbe solo – nel frattempo secondo fonti non confermate sta cercando di convincere la Russia a rifornire gli houthi yemeniti di missili antinave – ma se gli scontri dovessero estendersi per territorio e durata sarebbe difficile non prevedere un futuro intervento di Teheran. L’obiettivo di Washington è far in modo che dopo Hezbollah si sieda al tavolo dei negoziati anche Hamas. 

 

La proposta parte da una tregua di ventuno giorni, durante i quali aprire delle trattative anche su un accordo più ampio sia con il gruppo libanese sia con quello della Striscia di Gaza. Israele ha posto le sue condizioni che secondo alcuni esperti saranno difficili da accettare, mentre dentro alla coalizione di governo e anche tra le opposizioni sta montando un clima di protesta: i guadagni militari contro Hezbollah sono notevoli, mollare adesso vorrebbe dire dare una possiblità al gruppo libanese. L'idea di chi sostiene la tregua è invece che potrebbe essere il punto di partenza se serve a negoziare il ritorno dei cittadini a nord e la smilitarzzazione del confine meridionale del Libano. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)