Il valico di frontiera fra Siria e Libano di Jdeidat Yabous (foto Ansa)

fuga dal libano

Dietro ai silenzi di Assad, che osserva le bombe cadere su Hezbollah

Luca Gambardella

Il dittatore siriano mantiene il basso profilo perché sa di non potere competere sul piano militare. Intanto studia la prossima mossa: candidarsi come nuovo mediatore tra Iran e Israele

La catena del comando militare di Hezbollah si va assottigliando sotto le bombe lanciate dai caccia israeliani, ma il regime di Bashar el Assad resta in silenzio a osservare la sorte del suo alleato. Non un messaggio pubblico di cordoglio per le tante perdite registrate dai miliziani libanesi, e neppure uno con cui ribadire la vicinanza di Damasco al Partito di Dio. Le bombe di Tsahal uccidono centinaia di libanesi a pochi chilometri dai confini siriani, ma Assad dà l’impressione di essere concentrato su tutt’altro. Per esempio, oltre a pubblicizzare ampiamente la visita a Damasco dell’ex ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, il dittatore si è prodigato nelle nomine dei nuovi membri del gabinetto governativo, in uno dei suoi periodici esercizi di maquillage politico. Per il resto, il silenzio. 

Intanto però le testimonianze che arrivano dalla Siria dicono che molti comandanti e combattenti di Hezbollah sono stati richiamati in Libano per rinforzare le difese del paese. Certo, non si può parlare di una ritirata, perché la Siria è un luogo strategico, vitale per Hezbollah e per l’Iran e mai e poi mai sarebbe abbandonata al suo destino. Però, dietro al silenzio di Assad si cela grande apprensione per gli alti costi che i suoi alleati pagheranno al termine dell’offensiva israeliana. Lungi dall’interpretare l’inazione del dittatore siriano come un tradimento nei confronti di chi, in questi anni, gli ha permesso di restare al potere conducendo al suo fianco una guerra lunga e dispendiosa contro terroristi islamici e oppositori, Assad più semplicemente sembra a corto di alternative. La debolezza militare di Damasco è una costante da ben prima che iniziasse la guerra civile in Siria, e il 7 ottobre l’ha solamente certificata. Le incursioni dell’aviazione israeliana nei cieli siriani sono tanto frequenti da non fare più notizia e rientrano ormai nell’inevitabile prezzo da pagare per mantenere lo status quo – e non c’è nulla, denaro a parte, che Assad desideri più che mantenere gli equilibri intatti. 

Ma per una tragica ironia della sorte, proprio mentre è in trattativa con l’Unione europea e le Nazioni Unite per creare zone sicure all’interno della Siria dove riaccogliere i siriani fuggiti in questi anni in Libano, ora gli scenari rischiano di cambiare per l’ennesima volta. Migliaia di libanesi, gli stessi che fino a ieri lamentavano l’asfissiante invasione dei profughi siriani in Libano, sono ora costretti a fuggire in Siria per trovare riparo dalle bombe. Ieri, le Forze armate israeliane hanno confermato di avere lanciato un bombardamento anche su otto passaggi di frontiera tra Libano e Siria, sospettati di essere vie di accesso delle armi dirette dall’Iran a Hezbollah. Altrove, le auto ferme in fila alla frontiera di Jdeidat Yabous, a pochi chilometri da Damasco, sono stracolme di persone in fuga che in queste ore tentano di espletare le pratiche doganali e finalmente – incredibile anche solo pensarlo fino a qualche mese fa – trovare riparo in un paese che è a sua volta in guerra. Per farlo servono 100 dollari che obbligatoriamente i siriani chiedono a chi voglia entrare nel paese come pegno di solidarietà, o piuttosto per sfruttare la situazione drammatica e accumulare qualche soldo in valuta estera. Perché secondo alcuni esperti, per il regime l’offensiva di Israele potrebbe tradursi persino in un’opportunità, magari  per consacrarsi definitivamente come essenziale interlocutore agli occhi dell’occidente. Assad potrebbe candidarsi come il mediatore che, con un piede nell’asse della resistenza e l’altro nelle trattative per una normalizzazione delle relazioni con l’occidente, potrebbe intercedere con l’Iran per una de-escalation. 

Ma al di là dei calcoli politici, ambito in cui il dittatore siriano ha dimostrato in questi anni di avere una notevole abilità, il regime è militarmente debole e l’apertura di un nuovo fronte militare sul Golan, unica frontiera che separa Israele dalla Siria, allo stato attuale resta solamente un’ipotesi. Negli ultimi giorni si sono rincorse notizie non confermate sull’invio di rinforzi in Siria dagli alleati houthi dello Yemen, mentre Haaretz ha parlato di 40 mila militari siriani dislocati a ridosso del Golan. Sono notizie difficili da verificare. Finora, Assad ha dimostrato di non avere alcun interesse a imbarcarsi in una guerra aperta contro Israele, che sa di non potere sostenere. Al punto che è difficile credere che lo stesso Iran possa aspettarsi molto di più che tacita solidarietà dal regime di Damasco. La Siria è cruciale nell’asse della resistenza in quanto via di transito per i rifornimenti diretti da Iran e Iraq verso Hezbollah, non per la sua deterrenza militare. E persino le milizie filo iraniane nel paese sono strutturate e armate per conflitti a bassa intensità. Una guerra aperta con Israele è semplicemente fuori dalla loro portata. Assad ne è cosciente e si concentra sulla gestione del fronte interno. Gli oppositori al regime esultano per la sorte che aspetta Hezbollah, l’aguzzino che ha sostenuto il dittatore in una guerra durata oltre un decennio. “Oggi stiamo qui, con la massima innocenza e con il morale alto, seduti a guardare e ad applaudire, nulla di più”, ha scritto su X Majed Abdelnour, un attivista siriano, riferendosi all’attacco israeliano in Libano. Su Majalla, un giornale saudita con sede a Londra, un editoriale di Alia Mansour chiarisce il concetto: “Per molti siriani, ciò che sta accadendo ora in Libano è una specie di giustizia divina dopo che per 13 anni Hezbollah li ha costretti a morire, ad affamarsi e a scappare”.    

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.