Nasrallah tiene un discorso televisivo per la giornata internazionale di al-Quds nel sobborgo meridionale di Beirut (foto Marwan Naamani/Getty Images) 

Il ritratto

Hassan Nasrallah, il primo della lista

Micol Flammini

Il leader di Hezbollah che vuole lo stillicidio di Israele è nascosto dal 2006. Ancora prima dell’attacco di Israele su Beirut qualcuno sosteneva che ormai fosse un capo bidimensionale che dal bunker non usciva più. Storia di un leader ricercato per tutto il paese

Non si rimane a capo di un esercito-partito per trentadue anni senza essere il più scaltro, il più ambizioso, il più cauto di tutti. Hassan Nasrallah c’è riuscito, tanto che Hezbollah ormai ha preso la sua forma, quasi il suo nome, è legata a quel volto incorniciato dal turbante nero che appare ai libanesi e al mondo da dietro uno schermo. Ancora prima dell’attacco di Israele su Beirut, qualcuno sosteneva che Nasrallah ormai fosse poco più di un ectoplasma, un capo bidimensionale  nascosto da troppi anni, dal 2006, e che dal bunker non usciva più. Qualcuno sostiene invece che il suo parlare a distanza, non apparire più in pubblico, presentarsi come il ricercato dei ricercati, tra i suoi seguaci gli abbia conferito una dimensione soprannaturale. Il Libano che conosce e di fatto dirige per lui ha la misura di un nascondiglio, da dove, capo indiscusso, gestisce la guerra infinita che ha dichiarato a Israele.  

 

Per trentadue anni, fino a ieri non si è  trattato  soltanto di saper trovare i luoghi giusti per sfuggire alla sorte del suo predecessore e maestro, Abbas al Musawi, primo leader degli Hezbollah, eliminato da un missile israeliano mentre era in viaggio con la sua famiglia. Per continuare a essere il capo, la carriera di Nasrallah va raccontata dall’inizio, perché non è una catena inestricabile costruita dal caso, è un progetto accorto, appassionato e letale come di quelli che sembra strano ritrovare in personaggi che spesso, come Nasrallah, il corpo del leader non sembrano averlo. Nasrallah è statico, bidimensionale. Nasrallah è conosciuto come un uomo testardo e atroce, padrone ormai di ogni piega del futuro del Libano, paese sofferente da lui ridotto a una tana. 

 

Nasrallah ha coltivato il suo progetto con cura e attenzione, non c’è nulla di estemporaneo. Da primogenito di una famiglia di nove figli, nato nel quartiere di Beirut orientale chiamato Karantina, tra la povertà di drusi, cristiani e sciiti, costretto a fuggire da suo padre, che aveva un piccolo chiosco di verdura, verso il sud del Libano, durante la guerra civile del 1975, Nasrallah iniziò presto a sentire il richiamo della moschea. Il richiamo è diventato una chiamata, la chiamata un ordine e lui l’ha eseguito, al meglio, con attenzione, con esaltazione. Non voleva però una moschea qualunque, la sua è una storia di ambizione e tenacia, e cercò la più famosa, la più prestigiosa per intraprendere la sua hawza sciita, il suo seminario. Lasciò il Libano, abbandonò la casa, si trasferì a Najaf, in Iraq, dove rimase folgorato da Khomeini e dalla “sua presenza radiosa, in sua compagnia lo spazio e il tempo non esistevano”. L’ispirazione è chiara e dichiarata, il legame è quanto di più intrinseco e spietato possa arrivare a costruire un nuovo assetto regionale. L’amore politico e il fervore religioso nascono forse già nelle strade libanesi, nei quartieri della povertà, ma è in Iraq che Nasrallah iniziò ad assomigliare allo sceicco, predicatore, generale e braccio armato di oggi. Lasciò Najaf perché la polizia segreta di Saddam Hussein dava la caccia agli studenti radicali, molti suoi compagni vennero catturati e imprigionati, lui no: riuscì a sfuggire, serpeggiando guardingo tra i confini in allerta. Hassan Nasrallah tornò in Libano, per diventare il comandante militare di Amal nella valle del Bekaa, la stessa che oggi Hezbollah ha disseminato di depositi di armi, infrastrutture, trappole mortali per civili. Il ritorno doveva essere una pausa, un momento di attesa, perché era intenzionato a ritrovare il fervore incontrato a Najaf, lo stesso visto negli occhi di Khomeini, e che in Libano andava importato con la forza e la perseveranza del suo progetto sciita. La vita di Nasrallah è una mappa, sembra che abbia tatuati addosso i posti che tornano oggi, tormentati dalla guerra passata e dalla paura del suo ritorno. Amal era la milizia del “Movimento dei diseredati”, ma il piano di Nasrallah era quello di liberare gli sciiti dall’essere considerati di uno status inferiore, voleva ribaltare tutto e la strada per farlo l’avrebbe trovata in Iran, a Qom, dove andò a studiare e decise che avrebbe voluto replicare nel suo Libano la Rivoluzione islamica, ma con altri tempi, altri modi, con l’astuzia necessaria a imporre la sua presenza e il suo progetto in un paese completamente diverso dall’Iran e che lui, da un quartiere tanto misto come Karantina, conosceva alla perfezione. Non era solo in Libano a portare avanti questo progetto di rivoluzione libanese, quando Khomeini fornì soldi, armi e parole per fondare Hezbollah, Nasrallah era il numero due, si accodava ai dettami del suo maestro Musawi, non perdeva tempo, parole e soprattutto pensava alla guerra, e aspettava. Il suo momento arrivò in modo neppure troppo inaspettato, le vendette da una parte all’altra del confine sono frequenti e la storia di Nasrallah ruota attorno al nome del nemico principale, quello che era già presente nella sua vita, nella retorica di chi lo ispirava, quello da distruggere, da eliminare, senza mai nominare: Israele, l’innominabile “entità sionista”. Musawi venne ucciso da Tsahal, il partito Hezbollah sopravvisse alla sua uccisione, perché da tempo si preparava con lentezza e diligenza l’uomo che del leader non aveva il fisico, ma secondo molti aveva il tocco e soprattutto le intenzioni. Nasrallah divenne il capo di tutto Hezbollah, mescolando in sé il temperamento di un ecclesiastico e la determinazione ferrea di un generale. Era uomo di prediche e di armi, con gli occhi incastonati nel turbante nero da religioso, che nelle sue prediche stava iniziando ad apportare qualcosa di nuovo, determinante, di rabbioso e calmo allo stesso tempo. Non prometteva la distruzione completa di Israele, prometteva di più: il dolore, lento e sanguinante, lo stillicidio paziente e inclemente che porta alla resa, all’umiliazione, all’estinzione. Il più scaltro sopravvive, il più forte resiste, ma a in una carriera tanto lunga da aver conosciuto la maggior parte delle guerre del Libano, dalla giovinezza in poi, è necessario mescolare tutto insieme, essere tutto allo stesso tempo, spesso tutto il contrario di se stesso: calmo e rabbioso, ecclesiastico e militare, colto e popolano, grande oratore spigliato ma con una leggera balbuzie che si porta dietro ancora oggi nei sermoni promulgati dal pulpito degli schermi. 

 

All’inizio della sua carriera politica, venne definito “il mago”, un circense, un pifferaio in grado di convincere, di creare seguito dal nulla, un funambolo capace di trasformarsi in quello che il pubblico immagina. Il sociologo libanese Waddah Sharara osservando la sua ascesa aveva detto al New York Times: “Quando dice alla gente: io sono la vostra voce, io sono la vostra volontà, io sono la vostra coscienza, io sono la vostra resistenza; manda sia un messaggio di unità sia comunica di essere il prescelto per il compito. E’ come il mago che tira fuori il coniglio dal suo cappello e sa sempre con esattezza chi è il suo pubblico”. Negli anni Duemila, Nasrallah riuscì ad affermarsi come un nuovo leader del medio oriente, rivoluzionò il modo di parlare e di minacciare, mise in agenda obiettivi nuovi, diversi da quelli che per anni erano stati legati ai nomi del presidente egiziano Nasser e alle sue guerra, alle promesse e al terrorismo di Arafat, alle intimidazioni spaurite di Saddam Hussein, Israele con Nasrallah si è ritrovato un nemico rinnovato, amato quasi da tutti e durante la guerra contro lo stato ebraico del 2006, venne definito “l’uomo più potente del medio oriente, l’unico leader arabo che quello che dice, farà”, nonostante il bunker. Se in tutti questi anni il capo di Hezbollah è riuscito a far sopravvivere la sua fama dal suo nascondiglio è anche per la cura dei suoi discorsi, pronunciati sempre da ambienti spartani, per dimostrare che nonostante l’apparato di sicurezza mastodontico lui non ha cambiato stile di vita, anzi, vive isolato con poco. Le parole che usa sono sempre attente a dimostrare che seppur non è sul campo di battaglia, Nasrallah conosce i dettagli, li vede, li respira. E’ tranquillo, anche quando parla dopo la morte dei suoi collaboratori, e lo fu anche quando si trovò a parlare, quella volta ancora in pubblico, dopo la morte di suo figlio. Era settembre del 1997, avrebbe dovuto tenere un discorso in un sobborgo di Beirut, Haret Hreik, povero, una distesa di caseggiati in macerie, e parlò alla folla nonostante poco prima avesse ricevuto la notizia che suo figlio Hadi, di diciotto anni, era stato ucciso in uno scontro a fuoco con gli uomini di Tsahal. Salì sul palco, parlò con calma, nominò suo figlio come “martire” per una grande vittoria, non pianse e quel discorso tra la gente urlante, inneggiante, divenne ispiratore della reazioni di tanti leader dopo di lui, che iniziarono a dirsi fieri dei loro figli morti per il martirio, senza una lacrima, senza battere ciglio, pronti a santificare la morte come necessaria manifestazione di “eroismo, virilità, galanteria, coraggio”, secondo i termini di Nasrallah. 
Israele ha scardinato negli anni l’idea di iperpotenza nel mondo arabo, Nasrallah dopo gli anni delle grandi vittorie israeliane contro un universo mediorientale mortalmente armato e ostile, si è presentato al mondo come colui che aveva la ricetta: il lento stillicidio del popolo ebraico, da logorare fino a renderlo “più inconsistente di una ragnatela”. Senza l’Iran, Hezbollah non avrebbe avuto la forza di oggi, non sarebbe stato un esercito dagli arsenali rigonfi, con i piani pronti per attaccare oltre il confine, ma l’idea del gruppo sciita esisteva già e Nasrallah l’ha appiccicata addosso al Libano, arrivando a coprire ogni aspetto della vita libanese, arrivando a suggerire l’idea che Hezbollah poteva sostituirsi allo stato, essere meglio dello stato mentre forniva assistenza per rimediare a una situazione economica sempre più asfissiante di cui lui stesso è causa. 

 

Nasrallah è arrivato a  sessantaquattro anni, ricercato per tutto il paese, insicuro in ogni luogo. L’8 ottobre è entrato nel conflitto iniziato da Hamas, un razzo dopo l’altro contro il nord dello stato ebraico avrebbero dovuto portare allo stillicidio promesso, da ogni lato, per lasciar bruciare Israele dentro all’anello di fuoco che l’Iran gli ha costruito attorno e di cui Hezbollah è uno dei tizzoni più ardenti. Il capo del gruppo è il primo della lista, Israele ha  eliminato i suoi compagni di armi, i suoi suggeritori, i suoi strateghi, decine di funzionari del gruppo sono morti con l’esplosione dei cercapersone e dei walkie talkie attribuita allo stato ebraico – Hezbollah comunicava così per volere di Nasrallah, ossessionato dallo spionaggio israeliano – e la piramide che Nasrallah si era costruito negli anni si abbassa di gradino in gradino, a ritmo quotidiano, fino alle bombe sulla sua stessa testa. 

 

Nelle ultime settimane, secondo fonti dell’intelligence israeliana, Nasrallah è tornato più generale che predicatore, ha condotto per anni la guerra e adesso di nuovo gestisce i contatti con le brigate sul campo, legge le mappe, pensa alle strategie, mentre il cerchio attorno a lui si stringe. Aveva immaginato un conflitto di attrito eterno, in cui continuare a cullare il suo mito interno in un paese trasformato in una macchina da guerra  e tormentare il nemico esterno fino alla resa. Poi tutto si è messo a correre, l’ipnotizzatore degli anni Duemila cerca una strada, ha sempre saputo di essere un braccio dell’Iran pur credendo anche in una missione tutta sua. La tela del mago mostra tutte le crepe fatte di valutazioni sbagliate e di sete di sopravvivenza al potere. E’ sempre stato il più scaltro, il più ambizioso, il più cauto dei suoi, talmente tanto da essere rimasto solo di fronte ai suoi dilemmi e nella  consapevolezza che la sua vita e la sua morte ora sono un messaggio che Israele manda all’Iran

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)