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la cronaca da israele

L'Iran prova la Pearl Harbor israeliana

Cecilia Sala

Un attacco con 180 missili balistici per nascondere la propria debolezza e reagire al collasso di Hezbollah. Ma è un azzardo molto oltre le capacità di Teheran. Lo stato ebraico dice: “Siamo pronti” alla resa dei conti

Tel Aviv. L’attacco della Repubblica islamica dell’Iran contro il territorio di Israele è la mossa più audace di un leader, l’ayatollah Ali Khamenei, che fino a sei mesi fa era famoso per la sua “pazienza strategica”: evitare qualsiasi confronto diretto con Israele perché ha capacità d’intelligence imparagonabili, è meglio armato e ha alleati più forti. Forse è anche per aver coltivato la dottrina della pazienza strategica che – finora – Khamenei è il leader più longevo al potere del medio oriente. E’ stato un grande azzardo da parte sua decidere, in questa fase, di lanciare duecento  missili balistici contro le basi del Mossad e dell’aviazione israeliana, compresa quella dove si trova lo squadrone che venerdì ha bombardato il bunker di Hezbollah  uccidendo Hassan Nasrallah. Oltre che contro il quartier generale a Glilot della 8200, l’unità dell’intelligence militare israeliana che si occupa di guerra informatica e sorveglianza e che per anni ha tracciato i vertici del Partito di dio, fino a permettere di localizzarli subito quando il governo israeliano ha deciso che fosse arrivato il momento di ucciderli.  Quello di oggi è stato il primo attacco – a più ondate – dei pasdaran contro Israele da quando l’Iran ha perso la sua tradizionale garanzia sulla vita: Hezbollah. Le Guardie della Rivoluzione hanno detto che l’attacco è la risposta all’uccisione di Nasrallah e degli altri vertici, hanno chiuso lo spazio aereo dell’Iran e hanno aggiunto: se Israele risponde, attaccheremo di nuovo. Israele ha detto che risponderà. Nel  pomeriggio a Tel Aviv sono arrivate le prime indiscrezioni sull’attacco, poi è iniziata l’attesa, con le allerte, le indicazioni per i rifugi, infine le sirene e i lampi nel cielo. La Casa Bianca ha detto di aver aiutato le forze di Tsahal a intercettare i missili iraniani. 

Per quasi due decenni le autorità di Teheran hanno pensato che la milizia libanese – posizionata al bordo dello stato ebraico, meglio  armata delle  colleghe del sedicente Asse della resistenza – fosse un deterrente sufficiente a fermare una resa dei conti finale tra Israele e l’Iran, perché la Repubblica islamica ne sarebbe uscita distrutta ma anche lo stato ebraico avrebbe versato  sangue. Questa garanzia che in passato aveva funzionato (per esempio nel 2012 per fermare il piano israeliano di bombardare il programma atomico dell’Iran) non esiste più da quando, tra il 17 settembre in cui sono esplosi i cercapersone dei miliziani libanesi e il 27 settembre in cui il Sessantanovesimo squadrone di Tsahal ha decapitato Hezbollah uccidendo Nasrallah, Israele ha piegato il più prezioso alleato dell’Iran.

La Repubblica islamica è stata presa alla sprovvista (nessuno si aspettava che il Partito di dio collassasse a questa velocità) e aveva davanti soltanto due opzioni, entrambe poco allettanti. Non reagire avrebbe significato perdere molta della propria influenza nella regione – perché se Teheran sacrifica la prediletta Hezbollah senza esitare, tutti gli alleati-clienti dell’Iran dalla Siria allo Yemen avrebbero capito che, se le cose si fossero messe male, la Repubblica islamica non li avrebbe difesi, e avrebbero cominciato a rivedere i propri calcoli. Reagire, come Teheran ha fatto oggi, significava rischiare di tirarsi addosso la furia efficiente che Israele ha appena scatenato contro Hezbollah. Le Forze armate israeliane hanno dichiarato: “Questo attacco avrà conseguenze, agiremo nel momento e nei luoghi che decideremo”.

L’Iran ha circa tremila missili balistici nel suo arsenale, che sono l’unica arma con qualche reale possibilità di fare male a Israele, perché impiegano soltanto dodici minuti a percorrere più di mille chilometri e – se non vengono intercettati prima – a piombare contro un bersaglio sul territorio dello stato ebraico. I missili da crociera e i droni di Teheran invece sono più scenografici, oppure servono a tentare di saturare le difese aeree in un’area, ma hanno pochissime chance di raggiungere il loro obiettivo. Di questi circa tremila missili, la Repubblica islamica ne ha già consumati centoventi a metà aprile e centottanta oggi.

Domenica il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che “l’Iran sarà presto libero (dal regime degli ayatollah), prima di quanto molti non credano”, ma ha aggiunto che, per lo stato ebraico, questo sarebbe stato un periodo di grandi successi strategici ma pure di grandi sfide. Oggi le autorità israeliane hanno chiesto ai residenti della zona di Tel Aviv di rimanere vicino ai rifugi fino a nuove comunicazioni. Non era mai successo da quando è cominciata la campagna israeliana per mettere in ginocchio Hezbollah due settimane fa. Nello stesso momento, per la prima volta da aprile, il dipartimento di stato americano ordinava a tutti i dipendenti dell’Amministrazione statunitense in Israele, e ai loro familiari, di rifugiarsi nei bunker fino a nuovo avviso. Questa sera il gabinetto di guerra si è riunito in un bunker a Gerusalemme, non succedeva dall’inizio della guerra. 

Secondo gli analisti iraniani,  nella Repubblica islamica ha prevalso la linea che diceva: dobbiamo provare a spezzare il momentum di Netanyahu altrimenti la sua campagna sarà rapida e inarrestabile e noi non saremo risparmiati in ogni caso. Questa settimana Khamenei guiderà la preghiera del venerdì a Teheran, un evento che non si verificava da anni, e il suo sermone dovrebbe contenere la nuova strategia – forse suicida – contro Israele. 

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