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negli stati uniti

Quanto pesa il voto ispanico per Kamala Harris

Dal lavoro al contrasto all'immigrazione fino al gender: sono questi alcuni dei motivi che nel corso del tempo hanno spinto la comunità latinoamericana a spostarsi a destra. Ora la candidata dem cerca di recuperare i loro voti, che valgono quanto uno stato

Emorragia di voti ispano-americani, dicono gli analisti democratici. Spostamento a destra di cittadini di origine portoricana, peruviana, messicana. Un po’ naturale imborghesimento di una minoranza sempre più grossa, un po’ fastidio per le politiche di Joe Biden, resosi incapace di gestire il confine con il Messico e quindi costretto a singhiozzo a tornare a soluzioni dure per respingere e incarcerare gli immigrati irregolari, ricorrendo a politiche simili a quelle draconiane usate dal predecessore Donald Trump. Ma non sono gli unici motivi. In primavera, nel pieno delle primarie, il Foglio aveva parlato con vari rappresentanti dei club degli ispanici repubblicani californiani: tutti ex democratici, spesso ex sindacalisti, che sono passati al Partito repubblicano perché nelle scuole si insegnano “teoria gender” e “a non rispettare la famiglia”. Vedono il loro cattolicesimo sotto attacco e sono agitati per l’istruzione dei propri figli: una volta – dicono – i democratici erano per il lavoro, oggi sono per un progressismo ideologico che non impatta l’economia delle famiglie.
 


Gli elettori ispanici sono da sempre fondamentali per la sopravvivenza del Partito democratico. Hillary Clinton, nel 2016 contro Trump, li diede per scontati e ne pagò le conseguenze. Guardiamo i numeri: gli ispanici sono il 19 per cento della popolazione americana, la più grande minoranza etnica del paese – oltre 60 milioni di persone. Negli ultimi otto anni il numero di potenziali elettori ispanici è aumentato di 9 milioni, una crescita più rapida di qualsiasi altro gruppo etnico. Nel 2012 il 71 per cento dei latinos ha votato per Barack Obama, contro il 27 che ha votato per Mitt Romney. Nel 2016 il 65 per cento ha scelto Clinton. Nel 2020 troviamo cifre simili. Ma le proiezioni per il 2024, quando ancora lo sfidante di Trump era Joe Biden, erano rovinose per i democratici. Anche perché Biden deve la sua elezione alle comunità ispanoamericane in certi stati chiave. Secondo uno studio della University of California, Biden ha vinto in Arizona, dove gli ispanici sono oltre il 25 per cento degli elettori registrati, cosa che non succedeva dai tempi di Bill Clinton. E ha vinto grazie al voto degli ispanici. Secondo lo studio, anche in stati fondamentali come Georgia e Wisconsin Biden ha vinto per un punto percentuale grazie al sostegno delle piccole comunità ispaniche che hanno rovesciato il colore dello stato.
 

Siccome questo novembre ogni voto vale, soprattutto in questi stati, Harris sta cercando di riguadagnarsi il favore delle comunità messicane, equadoregne, domenicane e altre. Nel suo team c’è la campaign manager Julie Chávez Rodríguez, nipote dell’attivista  Cesar Chávez, eroe dei braccianti. Per il prossimo mese sono stati stanziati 3 milioni in nuovi spot elettorali nelle stazioni radio spagnole, il più grande investimento elettorale su media in lingua non inglese. Sono stati organizzati eventi per il mese del retaggio ispanico, che finisce a metà ottobre. In uno stato cruciale come la Pennsylvania, che ha una notevole comunità ispanica, il candidato vice Tim Walz ha partecipato a un comizio con attori come Anthony Ramos e Liza Colón-Zayas, protagonista di The Bear. Harris ha fatto un reel con l’attrice Jessica Alba per parlare di come aiuterà le piccole aziende dei latinos a crescere. A Las Vegas, in Nevada, vari politici democratici ispanici sono andati a vedere lo scontro di pugilato dei pesi supermedi tra il messicano Canelo Alvarez e il portoricano Edgar Berlanga. Sono in programma spot da condividere durante partite di baseball e di calcio. Per ora Harris sembra concentrarsi su Nevada, Arizona e Pennsylvania dove città a prevalenza ispanica come Allentown possono ribaltare il colore dello stato. Harris sta anche rispolverando i suoi successi di quando era procuratrice della California, raccontando come si impegnò per schiacciare i cartelli messicani della droga.
 

Secondo gli analisti l’elettorato ispanico da recuperare è quello delle terze e quarte generazioni, soprattutto uomini non laureati che si sono spostati verso destra. L’ottimismo di Harris, rispetto al catastrofismo di Trump, sembra attirare di più l’elettorato giovane dei latinos, under 30, preoccupato  dell’inflazione, dei costi della casa e della sanità. L’elettorato più anziano invece è più attratto dal mondo Maga. In certe comunità di esiliati, soprattutto dai regimi venezuelani e cubani della Florida del sud, girano meme repubblicani fatti con l’IA, foto di Kamala e Waltz in posa sotto vessilli di gruppi di estrema sinistra. Molti si chiedono: è davvero comunista? Una di queste immagini alterate l’ha condivisa anche Elon Musk, il padrone di X e di Tesla, diventato agente del caos anti: è una foto dove Harris indossa un cappello rosso con falce e martello che ha ottenuto 83,9 millioni di visualizzazioni. Al dibattito Trump ha detto parlando di Harris: “Suo padre era un marxista, quindi anche lei la è”. Dopo il dibattito la domanda in spagnolo più fatta sul Google americano era “chi è il padre di Kamala?”. La parola “marxista” ha avuto un 1000 per cento  di ricerche in più nelle 12 ore successive allo scontro televisivo.
 

Harris sa che la comunità ispanoamericana non è monolitica. Oltre a cercare di far registrare per il voto più di una decina di milioni di latinos maggiorenni, il target principale della campagna Harris-Waltz è composto da quel 15 per cento di elettori ispanici che si professano indecisi. Spostarli può voler dire vincere uno stato in più e battere Trump. Ma come fare? La questione immigrazione è quella più pressante. Da una parte Trump parla a ogni comizio di “criminali e stupratori che attraversano il confine e portano la droga”, e così Harris è passata da una posizione di “confine aperto” a una più dura, puntando i primi spot elettorali sulla promessa di assumere migliaia di nuovi agenti della polizia di frontiera. Ma per non alienarsi gli attivisti di sinistra ispanici, la candidata democratica vuole allo stesso tempo essere morbida promettendo una strada più semplice per la cittadinanza verso chi arriva nel paese tramite percorsi legali. Non bisogna essere duri come Trump, ma nemmeno lasciare un “open border”. Un equilibrio difficile, soprattutto visto che il compito dell’immigrazione era quello che avrebbe dovuto gestire da vicepresidente, quando si è concentrata soprattutto sul bloccare gli arrivi alla radice, parlando coi leader dei paesi centroamericani.
 

Venerdì Harris è andata in Arizona e ha visitato il confine per la prima volta da quando è candidata. Secondo un sondaggio del New York Times sugli stati di confine, il 54 per cento degli elettori dice che si fida più di Trump nella gestione dell’immigrazione, mentre solo il 43 preferisce l’approccio di Harris. Ma lei sottolinea che i repubblicani, per puri calcoli politici, hanno fatto fallire al Congresso un accordo bipartisan che avrebbe aiutato con l’emergenza immigrazione. E in più sta cercando di condividere con le folle gli interrogativi pratici sul piano trumpiano di “massicce deportazioni”. “Come farà?”, chiede Harris, “farà dei blitz su larga scala? Istituirà dei campi di concentramento?”. Più ci si avvicina al voto, più Harris si sposta verso destra dalle sue posizioni originarie, quelle di decriminalizzazione degli immigrati illegali che prometteva quando si candidò alle primarie democratiche del 2019. Al confine ha parlato di ripristinare l’ordine. “Gli Stati Uniti sono una nazione sovrana”, ha detto Harris. “E credo che abbiamo il dovere di creare delle regole per il confine e applicarle. Prendo questa responsabilità molto seriamente”.

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