medio oriente

Tel Aviv deserta per la festa conta i giorni per la risposta all'Iran. I soldati morti in Libano

Micol Flammini

Israele vuole colpire la Repubblica islamica dove è già messa male: l’economia.  Il coordinamento con Biden

Tel Aviv, dalla nostra inviata. La città è vuota, sembra dormire, aspettare. In effetti qualcosa attende: l’inizio di Rosh hashanà, un nuovo anno, il principio di un periodo di rinascita. Guai a chiederlo: le strade sono così vuote per i centottanta missili balistici lanciati dall’Iran? Nessuno passeggia a causa  dell’attentato terroristico in cui sono state uccise sette persone? Le domande suonano quasi offensive per Tel Aviv, la città convinta di poter reggere tutto, e risulta estranea,  fatta da un alieno, per chi nel giorno di festa è rimasto qui, nella calda desolazione e spiega che  le strade senza traffico, il silenzio sono soltanto il segnale di un paese che prende molto sul serio le sue feste e il suo riposo, niente di diverso, nessun segnale di paura, niente che possa suggerire alla Repubblica islamica dell’Iran e ai suoi alleati di aver spaventato Israele. La morte evitata dai cittadini di Tel Aviv durante l’attacco è un segnale di forza, un addetto dell’aeroporto Ben Gurion ci tiene a vantarsi di quanto martedì lo spazio aereo sia stato riaperto in fretta; descrive come i passeggeri sono stati condotti nei rifugi e poi tutto è ripartito, spedito e vitale, abitudinario: “Ce lo aspettavamo”, dice con noncuranza. Passato Rosh hashanà e trascorso lo Shabbat, tutto ricomincerà come prima: le strade si riempiranno di nuovo, tornerà la fretta nel fare le cose, la frenesia di Tel Aviv si ripresenterà: è una scommessa ma anche una promessa. L’uccisione dei sette civili a Giaffa invece scuote paure più complicate da governare per i civili e porta alla memoria la lunga lista di stragi del terrorismo per strada, incontrollabile, veloce, che ogni tanto si ripresenta (oggi le brigate al Qassam, braccio operativo di Hamas, hanno rivendicato l’attacco). Lev Kreitman, trentenne riservista con una pistola in tasca, stava per entrare in un bar di Giaffa quando ha sentito i primi spari, è corso fuori e ha eliminato uno dei due terroristi. Kreitman stesso è il simbolo degli incastri improbabili di questo paese: è sopravvissuto al 7 ottobre, era al Nova Festival di Re’im quando è iniziato l’attacco, ed è riuscito a scappare, per poi ritrovarsi, quasi un anno dopo, davanti a un nuovo attentato, con uno degli attentatori che aveva iniziato a correre nella sua direzione: è scampato alla morte per mano dei terroristi per almeno due volte, da un ottobre all’altro.  

 

Il quadro che fa da sfondo allo spopolato giorno di festa va composto con ordine: c’è stato l’attentato a Giaffa, c’è stato il secondo attacco di Teheran diretto contro il territorio israeliano, c’è la guerra a Gaza con gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e c’è la guerra in Libano, dove sono iniziate le incursioni di terra da parte di Tsahal, gli scontri diretti con gli Hezbollah, e ci sono state le prime otto vittime militari della guerra contro il gruppo sciita. I fronti separati in realtà sono schegge di un unico fronte, che prima o poi, questa è la valutazione dell’esercito e della politica, si sapeva  avrebbe mostrato la regia metodica del regime iraniano. Il momento è questo e dopo l’attacco di martedì, Israele ha promesso che la ritorsione sarà grande. 

 

Secondo la stampa israeliana, durante il gabinetto di sicurezza tenuto a Gerusalemme tra il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e le cariche militari, non sono state prese delle decisioni, ma la mossa di Tsahal potrebbe includere bombardamenti contro postazioni militari, azioni clandestine come omicidi mirati o un grande danno  al regime dove già è malmesso: l’economia. Israele potrebbe colpire pozzi di petrolio e raffinerie e sta cercando di coordinarsi con gli Stati Uniti che qualche ora prima che l’Iran iniziasse il suo attacco avevano promesso “gravi conseguenze”. I soldati americani hanno partecipato all’abbattimento dei missili balistici lanciati martedì, alcuni sono stati fermati prima che entrassero nei cieli di Israele: impiegano dodici minuti ad arrivare e la paura, nel momento del lancio, era che i sistemi di difesa aerea israeliani non sarebbero stati in grado di bloccare tutto. L’esercito ha ammesso che alcune infrastrutture militari sono state danneggiate, si tratta di uffici, zone di manutenzioni, nessun impianto critico. 

 

Il successo contro Teheran è stato un combinato  di potente e capillare difesa aerea capace di calcolare quali missili sarebbero caduti su aree abitate e quali su zone aperte per concentrarsi sull’abbattimento dei primi; un reticolato di rifugi che si estende per la maggior parte del territorio; un’architettura pensata per proteggere i cittadini durante una guerra con le trombe delle scale che fungono da riparo antimissile; una popolazione disobbediente in tutto, tranne nel codice di comportamento in caso di bombardamento e l’intervento dell’alleato americano. 

 

Israele ha iniziato a tratteggiare una possibile risposta, gli Stati Uniti ancora non lo hanno fatto, ma il rapporto apertamente frastagliato tra i due paesi, negli ultimi giorni si è trasformato in un coordinamento sempre più intenso. Il presidente americano, Joe Biden, ha detto di sostenere una risposta israeliana e l’ufficio del primo ministro, prima di agire, vuole aspettare di parlare con la Casa Bianca. Il calcolo è necessario: Teheran ha già promesso una ritorsione in caso di risposta israeliana e Israele avrà ancora bisogno dell’aiuto americano. In aprile, dopo che l’Iran aveva lanciato trecento fra missili e droni contro il territorio dello stato ebraico, Tsahal aveva risposto colpendo una batteria di missili S-300 nella zona di Isfahan nel giorno del compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Questa volta non ci sarà spazio per azioni dimostrative e simboliche. Un canale telegram affiliato al regime iraniano ha fatto sapere che se verranno colpiti gli impianti petroliferi, allora la risposta coinvolgerà gli impianti di tutta la regione: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Azerbaigian, Kuwait e Bahrein. Teheran ha esteso la minaccia al medio oriente intero, e oltre.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)