Il dibattito dei vice

J. D. Vance e la gentilezza che ti frega

Paola Peduzzi

Con garbo e cortesia, il candidato vicepresidente dei repubblicani americani rende l’eversione trumpiana meno orrenda, e quindi più pericolosa

Il dibattito tra padri – così è stato soprannominato il confronto televisivo tra i candidati vicepresidente alle elezioni americane, in una campagna in cui la candidata donna-e-nera lascia le disquisizioni identitarie ai maschiè stato cortese ed educato, a tratti gentile: che sorpresa, che noia. L’equivoco del “dialogo civile” è talmente radicato che se un politico non fissa inebetito la telecamera o non sceglie come ritornello della serata il pericolo degli immigrati che mangiano cani e gatti dei vicini di casa, l’interesse evapora. Certo, c’è il mistero dell’eyeliner di J. D. Vance, il vice di Donald Trump (ci dica di che marca è, per favore), e la sua scelta di indossare una cravatta tendente al fucsia (per conquistare il voto femminile, dice serio qualcuno); c’è anche il mistero di Tim Walz, il vice di Kamala Harris, che da quando è stato scelto (prima non lo conosceva nessuno) è stato descritto come un grande retore dalla battuta svelta e invece sul palco del dibattito ha portato il suo lato da insegnante del liceo, occhi bassi a prendere affannosi appunti e addio brillantezza (un giorno bisognerà parlare delle strategie scelte dai democratici, in questo 2024 di capovolgimenti all’ultimo minuto, per preparare i candidati ai dibattiti: al Joe Biden smemorato è stato imposto di imparare a memoria dati e talking points, al Tim Walz spontaneo e genuino di scriversi tutto e di alzare gli occhi soltanto per sgranarli sperduto verso la telecamera). Ma per il resto troppa civiltà, troppa cortesia, due politici normali che si confrontano in modo normale, a volte vanno persino nella stessa direzione – andiamo a dormire, non c’è niente da vedere qui.

La gentilezza non fa spettacolo, in effetti c’è una ragione se i dibattiti dei candidati alla Casa Bianca, e ancor più quelli dei vice, sono da sempre poco interessanti e poco incisivi, per noi che non votiamo ma anche per loro che votano. Ma la gentilezza fa la strategia.

Lo sa bene J. D. Vance, mostrificato dal chiacchiericcio social per i suoi commenti su madri e gattare e  perché circostanzia le follie di Trump (come quella dei cuccioli mangiati dagli immigrati: lo ha rifatto), al quale basta un po’ di cortesia per riuscire nel piano che sta dietro alla sua carriera politica, ancor prima di essere scelto da Trump come vice. Come si sa, la discesa in campo di Vance con la candidatura a senatore dell’Ohio è stata voluta e finanziata da Peter Thiel, magnate della Silicon Valley, nel 2022 per costruire un post trumpismo che potesse piacere all’elettorato trumpiano ma che non avesse più Trump come riferimento. Quel mondo non amava l’ex presidente ma parte della sua impostazione sì, e quindi si augurava di traghettare la formula rendendola potabile anche agli elettori moderati. Vance era il trumpismo senza Trump, più colto, più articolato e più dottrinario: una alternativa. Poi però il Partito repubblicano, che si era posto come obiettivo dopo aver perso le elezioni del 2020 quello di emanciparsi da Trump e che sembrava anche aver fatto un passo decisivo in quella direzione alle elezioni di metà mandato, nel 2022, quando i candidati selezionati da Trump erano andati male rispetto a quelli considerati “tradizionali, si è piegato a Trump. Sull’ultimo numero della rivista Atlantic, Mark Leibovich documenta con quel suo metodo affilato e preciso questa resa: si intitola “Ipocrisia, arrendevolezza e il trionfo di Donald Trump”, parte dalla convinzione originaria dello stesso Trump che i politici repubblicani fossero “fessi e smidollati” –  “gli passerò sopra”, aveva detto nel 2015 a Leibovich – e si conclude con la dimostrazione che l’ex presidente avesse ragione. Leibovich porta molti esempi di politici repubblicani di spicco che gli hanno detto che non avrebbero mai baciato la pantofola all’ex presidente e che poi lo hanno fatto, uno via l’altro. Come Vance.

Nel dibattito dei vice, tutto cordialità e garbo, c’è la testimonianza della capitolazione del Partito repubblicano e riguarda proprio le elezioni del 2020 e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del 2021. Inizialmente, i repubblicani condannarono l’assalto e sembrarono così convincenti che anche i democratici pensarono che una volta fuori dalla Casa Bianca Trump e i suoi istinti eversivi sarebbero stati dissinescati. Joe Biden, nella notte della vittoria, aveva detto: la guerra è finita, coltivando l’illusione di una futura, pur complessa, ricomposizione. Ma poco a poco, smidollati e fanatici, sono diventati meno netti sul negazionismo di Trump rispetto all’esito del voto del 2020, al punto che, al dibattito dei vice (Trump non ha confermato il suo vice del primo mandato, Mike Pence, perché certificò la vittoria di Biden e per sfuggire alla folla che gridava “impicchiamolo” dovette nascondersi nei parcheggi sotto al Campidoglio), Vance ha detto che Trump aveva soltanto chiesto di fare una protesta pacifica il 6 gennaio, e comunque, com’è andata a finire?, che Biden si è insediato e Trump non è più alla Casa Bianca. Guardiamo al futuro, ha poi detto Vance, spostando ancora un po’ più in là la teoria cospiratoria che è il mito fondativo che ha permesso a Trump di essere di nuovo candidato, di spianare i politici repubblicani, di reclutare lo stesso Vance, il gentile.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi