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Medio Oriente

L'illusione di Netanyahu di creare con la forza un ordine stabile

Vittorio Emanuele Parsi

L'unica soluzione per una de-escalation non è quella indicata dal premier israeliano, ma passa da una tregua immediata a Gaza, in cambio della liberazione degli ostaggi superstiti

Ristrutturare con la forza l’assetto della regione, transitare da un multilateralismo in salsa mediorientale con prevalenza israeliana a una egemonia fondata sul predominio dello stato ebraico, sostituire l’invulnerabilità israeliana tragicamente affondata il 7 ottobre in una vera e propria onnipotenza, riesumare l’esportazione della democrazia dalla tomba delle pessime idee sepolte nei deserti iracheni e negli altopiani afgani per applicarla all’Iran. So che questo giornale ha idee diverse, ma a mio modo di vedere sono questi gli snodi della strategia di Benjamin Netanyahu, che appare tanto ambiziosa quanto pericolosa per la sicurezza di Israele, del medio oriente e dell’Europa.

 

A mano a mano che il conflitto scatenato dal terribile pogrom del 7 ottobre continua, in un’ordalia di sangue che ha causato almeno 42 mila morti a Gaza, oltre duemila in Libano e un numero imprecisato nei vari raid dei coloni estremisti (nell’indifferenza dell’esercito e della polizia israeliane) in Cisgiordania – e che si sommano ai circa 1.500 cittadini israeliani uccisi e rapiti in quel tragico giorno – sembra precisarsi la scommessa di Bibi Netanyahu. Cogliere l’occasione offerta da quella strage e dal vuoto di potere negli Stati Uniti per compiere un deciso passo in avanti nel disegnare un medio oriente in cui nessuno possa mettersi di traverso rispetto al progetto della creazione di un “grande Israele”, from the river to the sea, e costruire la sicurezza assoluta dello stato ebraico fondandola sulla forza delle armi.

E’ l’eterna illusione che sulla sola e semplice punta delle baionette (come si diceva una volta) possa essere costruito un ordine stabile e duraturo: un progetto che abbiamo visto fallire molte volte nel corso della storia europea. Probabilmente, nella testa di Bibi e dei suoi consiglieri, questa dovrebbe essere “la guerra che metterà fine a tutte le guerre”, oltre che ai guai giudiziari del peggior premier della storia di Israele; ma nessuna stabilità può essere raggiunta attraverso la mera annichilazione dei propri oppositori, la delegittimazione delle loro aspettative e dei loro diritti e la loro disumanizzazione. Non parlo, evidentemente, di Hamas, del Jihad islamico o Hezbollah e dei loro leader e accoliti, ma innanzitutto del popolo palestinese, il cui diritto all’indipendenza, internazionalmente riconosciuto da quasi ottant’anni, dal 1967 è stato sistematicamente negato dall’occupazione militare e dalla colonizzazione israeliana.

Ciò che rende pericolosa la strategia israeliana, al di là delle grossolane violazioni dei princìpi del diritto internazionale e umanitario che a mio avviso ci sono (che pure non sono ammennicoli sacrificabili sull’altare del cosiddetto realismo politico), è l’illusione che il passaggio da un assetto di “multilaterlismo ponderato” a uno di supremazia assoluta possa essere realizzabile e difendibile. So bene che la situazione in cui Israele storicamente si trova in medio oriente è estremamente complessa, che per molti decenni (ma non più ora) molti attori della regione ne hanno contestato il diritto all’esistenza, mentre formazioni politiche dal carattere terroristico hanno continuato a cercare di affermare con ricorrenti assalti questa visione. Ma non posso non constatare che il fallimento, direi proprio il sabotaggio sistematico, degli accordi di Oslo e della strada verso la creazione effettiva di un’entità statale palestinese sovrana è stato ricorrente nella pratica dei governi israeliani e massimizzata da Netanyahu. La stessa trama degli accordi di Abramo, che vorrebbero portare a un sistema regionale tra il Golfo e il Levante nel quale i sauditi e le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo costituiscano i pilastri di un ordine pacifico e di sviluppo che comprenda Israele, lascia concretamente nel limbo il tema della Palestina. E anche contro questo aspetto, Hamas ha scatenato il suo attacco bestiale il 7 ottobre.

La rappresaglia che Israele ha scatenato contro Gaza sembra voler fornire la cornice di sicurezza all’interno della quale fissare quegli accordi, eliminando per sempre la prospettiva della sovranità palestinese all’interno dei confini del 1967, gli unici internazionalmente validi e riconosciuti. E in questo contesto si colloca il deliberato tentativo di allargare il conflitto al Libano, per attirarvi l’Iran – grande protettore di Hezbollah – e chiudere una volta per tutti i conti con un regime – quello degli ayatollah – che predica esplicitamente la distruzione di Israele e che per decenni ha provato a costituire una minaccia esistenziale anche per i regimi delle monarchie sunnite del Golfo: in effetti con scarsi risultati.

Evidentemente, non si può applicare a un paese grande e popoloso come l’Iran la ricetta di spostamento forzoso della popolazione che porzioni consistenti della maggioranza e del governo di Netanyahu perseguono, di qui l’idea di provocare, attraverso un duro colpo militare, il crollo della Repubblica islamica, ovvero un regime change, di cui l’appello dell’altra sera di Netanyahu “ai persiani” forniva una prima narrazione. Ora, se i cittadini iraniani chiedessero ai libanesi cristiano-maroniti (non agli sciiti), quanto si possa fare affidamento sulle promesse israeliane potrebbero farsi due conti. Nel 1982, una volta finito il lavoro sporco di liquidare la presenza militare dell’Olp in Libano e di mandare il terribile ammonimento dei massacri di Sabra e Chatila, i maroniti vennero abbandonati a loro stessi e il presidente eletto Bachir Gemayel morì in un attentato, della cui responsabilità tanto le formazioni musulmane quanto gli israeliani restano i principali sospetti.

Ma la cosa più incredibile è come facciano gli israeliani a pensare di poter riesumare e portare al successo una strategia – quella dell’esportazione militare della democrazia – che è risultata fallimentare per l’America di George W. Bush del 2001 e del 2003 (anche qui so che questo giornale ha idee diverse), oltretutto in uno scenario internazionale incredibilmente più favorevole di quello attuale: erano gli anni dell’unipolarismo americano, nel quale nessuno poteva opporsi a Washington e dove, soprattutto, nessuno era in grado di sfruttarne i possibili errori né di proporre modelli di ordine alternativi a quello liberale. E oltre tutto, l’America come paladino della libertà era, persino in medio oriente, decisamente più credibile di quanto non possa esserlo Israele. Anche quell’America, che si era scoperta vulnerabile a un vile attacco terroristico, si illuse di sostituire la perduta invulnerabilità con una nuova onnipotenza. Sappiamo tutti come è andata finire.

Al di là delle per nulla trascurabili questioni di principio, dunque, che per le democrazie costituiscono temi vitali per il proprio futuro, credo che sia la velleitarietà della strategia israeliana a renderla estremante pericolosa. La sola via per disinnescare la situazione passa da quella tregua immediata a Gaza, in cambio della liberazione degli ostaggi superstiti, che fornirebbe anche a tutti gli attori di questo tremendo conflitto la possibilità di muoversi verso una de-escalation. Si tratta della proposta franco-americana, che Netanyahu aveva fatto mostra di accettare mentre volava verso New York e in realtà programmava l’omicidio di Nasrallah. Ed è in questa direzione che andrebbero esercitate le pressioni alla moderazione sulle autorità israeliane, invece di lanciare generici appelli alla pace e alla de-escalation.

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