Il colloquio

Cosa significa essere un intellettuale in Cina, oltre la censura. Parla Wang Hui

Priscilla Ruggiero

Tra i più importanti pensatori cinesi, negli anni è emerso come una figura centrale della Nuova sinistra. Oggi è in Italia per un incontro organizzato in collaborazione con il  Berggruen Institute  Europe al Festival di Internazionale, a Ferrara. Al Foglio racconta come ritagliarsi uno spazio critico e affrontare le contraddizioni di Pechino, nelle crepe 

Wang Hui era tra quei manifestanti che trentacinque anni fa, a piazza Tiananmen, chiedevano  riforme politiche: per la sua partecipazione alle proteste finì in un campo di rieducazione nella provincia dello Shaanxi, e grazie a quella esperienza si rese conto di quanto la sua vita pechinese fosse distante dalla Cina rurale: “Mentre lasciavo piazza Tiananmen in compagnia dell’ultimo gruppo di miei compagni di classe, non provavo altro che rabbia e disperazione”, ricordò molti anni dopo, come un segno indelebile nella sua memoria. Oggi  è uno dei più importanti pensatori cinesi, negli anni è emerso come una figura centrale tra quel gruppo di scrittori e accademici noti collettivamente come la Nuova sinistra, una corrente complessa  e secondo lo stesso professore “ambigua”, “io stesso  uso il concetto raramente”, perché “negli anni Novanta era un nome dato dai neoliberisti ai loro critici”, dice al Foglio Wang. Nella sua carriera da intellettuale – è professore presso la prestigiosa Università  Tsinghua  di Pechino ed è stato  direttore della rivista Dushu – Wang analizza la Cina contemporanea come parte del nuovo ordine globale neoliberista, si è ritagliato uno spazio tra le crepe della censura della Repubblica popolare cinese, per riuscire a “esplorare la possibilità di un pensiero critico”. Le sue ricerche  si concentrano sulla società e la politica cinese, la corruzione, e quel divario tra ricchi e poveri, tra aree rurali e urbane della Cina che ha scoperto nello Shaanxi e non ha  più abbandonato. Oggi Wang Hui è in Italia per parlare a una conferenza organizzata in collaborazione con il  Berggruen Institute  Europe  di “nuovi equilibri internazionali e il ruolo della Cina in un mondo post globalizzazione” con il  direttore dell’istituto Lorenzo Marsili, al Festival di Internazionale a Ferrara.

 

Nella sua carriera da intellettuale, è proprio  da Tiananmen che Wang riparte: alla fine degli anni ’90,  lo storico racconta di aver iniziato  a considerare “il 1989 come un punto di svolta nella storia del pensiero cinese. La riforma della Cina è iniziata negli anni Settanta. Dalla riconciliazione sino-statunitense e dall’apertura iniziale nei primi anni Settanta alla riforma e all’apertura guidata da Deng Xiaoping”. Poi     a metà degli anni Ottanta, “le disuguaglianze sociali si sono intensificate e le richieste sociali di uguaglianza e   democrazia delle élite intellettuali e dei giovani studenti si sono scontrate tra loro. Nel 1989, in Cina ci fu  il movimento di Tiananmen: finì un’epoca”. L’economia cinese sperimentò una terapia d’urto, a differenza della Russia,  e  un periodo di rapida crescita: “Tuttavia, questo processo non ha inaugurato un’èra di uguaglianza e liberazione come molti si aspettavano: la polarizzazione tra ricchi e poveri, l’aumento del divario tra aree urbane e rurali, la differenziazione tra aree costiere e aree interne, la corruzione istituzionale e  le nuove crisi geopolitiche si sono susseguite. Gli intellettuali cinesi hanno dovuto affrontare un nuovo modello, completamente diverso”, dice al Foglio il pensatore. E così quell’èra di riforme, secondo Wang, si è definitivamente  conclusa con la crisi finanziaria globale del 2008,  segnata dalle Olimpiadi del 2008, a Pechino: “La nuova situazione ha costretto gli intellettuali a pensare a nuove sfide. La comunità intellettuale cinese si è nuovamente spaccata, compreso il movimento della Nuova sinistra – se   è mai esistito”. Tutte  le questioni sollevate dagli intellettuali della cosiddetta Nuova sinistra negli anni ’90, sono  improvvisamente diventate  parte di “un consenso sociale più ampio”.

 

E le sfide del Ventunesimo secolo?  “La rottura rappresentativa o il declino della rappresentanza politica, il fenomeno chiamato oggi populismo”,  dice Wang,  e la  crisi dello spazio pubblico, di una libertà sempre più piccola in Cina: “Sono stato direttore della rivista Dushu per circa un decennio, dal 1996 al 2007: ha svolto un ruolo importante nell’avviare una serie di dibattiti su questioni sociali e politiche. Ma questo  spazio si sta riducendo, a causa della censura e dell’espansione dell’utilizzo dei social media”. Sono sempre i social      secondo Wang   – che ricorda l’accoltellamento del bambino  giapponese  di 10 anni  di fine settembre a Shenzhen – una delle cause di una retorica nazionalista “estremamente miope” che sta  tingendo di nero il sentimento nazionale cinese “con un aspetto internazionalista”. In questa settimana d’oro cinese che celebra il 75esimo anniversario della Repubblica popolare, il primo ottobre del 1949,   il nazionalismo estremo in Cina è un problema sempre più grande, e il caso di Shenzhen lo dimostra. “Il sistema di censura dei media cinesi è un’esistenza ovvia”, ma  “se si vogliono affrontare le contraddizioni e le crisi della propria società e proporre un’analisi veramente critica”, dice l’intellettuale cinese, “bisogna cercare di affrontare le pressioni ed esplorare la possibilità di un pensiero critico”. Nelle crepe.

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