La rifondazione di Israele

A un anno dal 7 ottobre, gli israeliani guardano in faccia il trauma e ritrovano l'unità

Micol Flammini

Il sionismo, l’esercito, l’estrema destra, la convivenza con i palestinesi.  Ritratto di un paese senza più illusioni e che dopo la strage di Hamas non vuole più sbagliare

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Il giallo non è più un colore, è un richiamo. Ottobre non è più un mese, è un lamento. Israele si volta indietro, vede che si avvicina un nuovo 7 ottobre, si guarda allo specchio e non si riconosce più. Tutto il giallo che c’è per le strade confonde e ricorda, è il colore degli ostaggi. Non c’è iniziativa che non si sia tinta di giallo: qualsiasi cosa faccia questo paese, lo fa ricordando che ci sono degli israeliani dall’altra parte del confine, a sud, in un tunnel di Hamas, forse morti, probabilmente moribondi, sicuramente irriconoscibili. Allora sono gialle le spille che le persone portano al bavero e mettono anche soltanto per andare a fare la spesa; sono gialli i menù dei ristoranti, perché la vita sociale è tornata, ma bisogna ricordare; sono gialli i nastri legati agli specchietti delle macchine, gialli i volantini di protesta, gialli i cartelloni delle rassegne cinematografiche. Giallo è il colore dell’incompletezza. Poi è tornato ottobre, il mese delle guerre, il mese del pentimento, il mese del danno. Ottobre ricorda che è trascorso un anno, che in tanti hanno percepito come infinito e porta a una domanda necessaria: quanto è cambiato Israele? Tanto, troppo, non abbastanza. Al Kikar Hatufim, la piazza degli ostaggi, chi si lascia rivolgere la domanda è comunque d’accordo su un punto: il paese non è più uguale a se stesso. Il Capodanno ebraico che ha ammantato la città di un’aria di festa e di sonno è finito, ma per tutti la preghiera di Rosh Hashanà che comincia con la frase “Finisca l’anno con le sue maledizioni. Cominci l’anno con le sue benedizioni” in questo ottobre, che torna e porta in dote un anniversario luttuoso, ha avuto un significato completamente diverso, inaspettato. “Ci ho pensato tutta la notte – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato e attivista – se devo comparare lo scorso Capodanno con questo, lo scorso Rosh Hashanà con questo, beh, preferisco essere qui adesso, in questo momento, con tutte le trasformazioni”. Israele è nuovo, doloroso, ma diverso: “Non siamo più ciechi – riprende Elbashan – ora vediamo con chiarezza chi siamo, vediamo gli amici e i nemici, i torti e le ragioni”. Non sono parole semplici per lo scrittore, impegnato per una vita nel processo di pace;  ferreo sostenitore della convivenza con i palestinesi.  

 

 “Ho dimenticato quello che mia nonna non aveva mai dimenticato, le davo della razzista, credevo che fosse troppo traumatizzata dall’Olocausto e dalla guerra di Indipendenza per capire cosa fosse giusto. Io andavo a Ramallah per cercare una soluzione, ero impegnato in quella che oggi chiamo l’industria della pace e avevo dimenticato che se il mio impegno, da sionista, era quello di essere disposto a rinunciare a parte del territorio dello stato di Israele, l’altra parte invece non vuole l’esistenza dello stato di Israele”. Lo scorso anno, prima del 7 ottobre, Elbashan era fermo nella sua convinzione di un processo di pace che portasse alla collaborazione tra i due popoli, credeva che fosse giusto, da israeliano, impegnarsi per i diritti della parte palestinese e oggi, con la voce seria, monocorde, si guarda indietro e dice: “Aveva ragione mia nonna: non c’è convivenza”. Lo scrittore è ancora convinto che la soluzione sia due stati per due popoli, ma quei due popoli non saranno mai amici, saranno territori separati, divisi, impenetrabili: “Sono ancora dell’idea che è necessario cedere parte del territorio ai palestinesi, ma non ci saranno lavoratori che si spostano da Ramallah per andare a lavorare a Tel Aviv, non ci sarà un confine poroso, non si andrà da una parte all’altra, saranno due mondi chiusi, incomunicabili”. L’idea della convivenza è sempre meno presente, anche chi per anni, come Yuval, aveva pensato che fosse l’unica strada giusta da percorrere, adesso è sempre più convinto che la soluzione sia smettere di condividere qualsiasi cosa e questo ha anche un effetto politico. Michael Milshtein, esperto di gruppi terroristi e di sicurezza, ne fa una riflessione logica: “Gli elementi più estremisti del governo attuale, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, sostengono la creazione di un Grande Israele, dal fiume al mare, Eretz Yisrael Hashlema. La pancia di un paese traumatizzato può mostrarsi interessata ai loro discorsi, ma la verità è che gli israeliani non hanno intenzione di vivere in un unico stato con i palestinesi, quindi non approvano il loro progetto. Anzi quello che chiedono ora è: come possiamo separarci?”.

 

Gli israeliani sono diventati ossessionati dal progettare, dal domani, chiedono risposte, racconta Milshtein. Non sono un popolo impaurito, sono un popolo che sa di poter contare sulla propria resilienza, su un senso intimo e spontaneo di comunità che in questo anno è venuto su con naturalezza, che si rende conto di quanto l’esercito, dopo il più grande dei fallimenti, abbia ottenuto risultati importanti: “La domanda adesso è: dove andiamo? – dice Milshtein – Israele sta vivendo la sua guerra più difficile, l’esercito è diventato più grande, ha cambiato il modo di ragionare: un tempo era cauto, evitava lo scontro, adesso si è fatto più aggressivo, ma mancano le priorità. Dal mio punto di vista la priorità è l’Iran, dobbiamo concentrarci su quello. Tsahal ha dimostrato di poter reggere su più fronti, ma manca una strategia”. E il problema, secondo Milshtein, è ancora una volta politico: “A guidarci c’è la stessa classe dirigente che ha commesso gli errori che hanno portato al 7 ottobre. Non c’è stata una commissione di inchiesta per stabilire non soltanto le responsabilità, ma anche per studiare nel dettaglio cosa è stato sbagliato. Queste sono le premesse per tornare a sbagliare di nuovo”. Anche Elbashan ne fa un discorso politico, è un avvocato e nella sua carriera ha insegnato anche a Ben-Gvir, dice di non capire quale sia il segreto del suo successo, ma confessa: “L’ho conosciuto che era un giovane radicale di destra, ero convinto sarebbe cambiato, invece no. Anche io ero un giovane radicale di sinistra, poi sono cambiato. Rimanere agli estremi è da immaturi”. Immaturo e deludente, secondo Elbashan, è anche l’atteggiamento di tutti coloro che non hanno chiesto scusa agli israeliani: “Il premier Netanyahu, l’esercito, i politici, gli ex premier”. Gli israeliani, invece, si sono ritrovati più uniti e consapevoli, “c’è una minoranza estremista che urla molto, l’abbiamo lasciata urlare, non lo permetteremo più. Siamo noi la maggioranza e ci faremo sentire”, dice lo scrittore. La politica è percepita come un impedimento, la società si è ritrovata ferita, ma più vicina: “Crediamo in noi stessi”, conclude Milshtein. 

 

Elbashan ha sempre pensato che la sua israelianità fosse definita dal numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito da ragazzo. Ha trascorso una vita a sentirsi più israeliano che ebreo, dal 7 ottobre, ha capito di essere ebreo: “Non sono religioso, non vado in sinagoga, non indosso la kippah. Ho spesso ascoltato gli ultraortodossi andare in giro per strada a predicare la fratellanza fra tutti noi e non mi sono mai sentito loro fratello. Ora sì, sento un legame, come in ogni famiglia vedi le differenze, ma il senso di intimità rimane”. Molti israeliani hanno un timore che non provavano da tempo, hanno paura per la fine di Israele, uno stato che non è soltanto una casa, un progetto, un sogno, “rappresenta tutto quello che sei – spiega Elbashan – diversamente dagli ebrei della diaspora, sono cresciuto con l’idea che l’unico modo di essere, sia essere sionista. Così ho cresciuto i miei figli. Non so come essere ebreo senza essere sionista. Non so essere, senza essere sionista”. Yuval lo mette in parole, ma questo è un senso diffuso, un nuovo “essere o non essere” che gli israeliani si sono ripetuti per un anno. Il sionismo si è rafforzato, “lo vedi – conclude Yuval – calcolando le tante morti dei soldati a Gaza o in Libano – hanno tutti una vita, una famiglia, un lavoro. Vanno a combattere perché non possono esistere senza essere qui”. Elbashan spiega: “Un anno fa rifiutavo, come molti israeliani, l’idea di dover vivere con la spada. Ora so, come molti israeliani, che è meglio vivere con la spada che intrappolato in un’illusione”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)