Pericolo russo
Il mito della “superarma” che non esiste. L'unico arsenale minaccioso è quello di Putin
I supercannoni di Saddam, i flop dei missili Sarmat e dei carri T-14 Armata. Dalla fine della Guerra fredda, gli stati europei hanno speso sempre di meno per la propria sicurezza. Ma da quando Mosca ha armato le milizie nel Donbas e ha annesso la Crimea nel 2016, tutto è cambiato
C’è uno spettro che si aggira nelle redazioni di alcuni giornali e nei salotti televisivi italiani: le superarmi. E non è uno spettro nemmeno tanto originale. Ai tempi della guerra del Golfo (la prima) già si favoleggiava dei supercannoni di Saddam Hussein che avrebbero fatto a pezzi gli invasori occidentali (dal punto di vista dei kuwaitiani, liberatori). Poi si scoprì che il fantomatico Progetto Babilonia era poco più che un programma di sviluppo per normalissima (si fa per dire) artiglieria pesante, e che comunque era andato a rotoli per inettitudine.
Ma il fascino dell’arma-fine-di-mondo è duro a morire. E da quando, nel febbraio 2022, le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, è Putin a essere indicato come colui che detiene (o sta per ottenere) “ordigni innovativi e mostruosi” che ridurrebbero in cenere tutti i suoi oppositori in uno scenario da Apocalisse (La Repubblica, 3 ottobre 2023). Il repertorio è vario. Dai “supermissili” balistici pesanti, capaci di colpire ovunque, chiunque e comunque senza possibilità di essere intercettati (Sky Tg24, 29 febbraio 2024) fino ai più convenzionali ma non meno spaventevoli carri T-14 Armata “super arma in prima linea… capace di distruggere una città in pochi minuti” (Il Messaggero, 25 aprile 2023). Poco importa se il sedicente supermissile RS-28 Sarmat, proclamato da anni come lo strumento decisivo per sovvertire gli equilibri strategici, si è rivelato finora soprattutto un eclatante fallimento, e in occasione dell’ultimo test di lancio pochi giorni fa è riuscito a distruggere solo se stesso, lasciando un imbarazzante e gigantesco cratere. O se il T-14, che doveva rottamare ogni altro carro armato da battaglia al mondo, si è rivelato buono finora solo per le parate sulla Piazza Rossa, visto che dei quaranta esemplari (forse) finora costruiti nessuno è stato impiegato con successo al fronte. Un epico insuccesso, come l’ha definito il National Security Journal qualche settimana fa. Ma ci sono poche speranze che questa (letteralmente) disarmante realtà induca gli opinionisti alla prudenza, o anche solo a consultare qualche fonte affidabile prima di scrivere articoli allarmistici o pontificarne sugli schermi. Perché la leggenda delle superarmi non è che una faccia di quella cronica incapacità di pensare la guerra in termini razionali, critici (e soprattutto informati) che fa del circuito mediatico di casa nostra uno dei peggiori per informarsi sul problema.
L’altra, di faccia, è la convinzione che di armi si possa parlare solo nei termini di un gigantesco complotto dei poteri forti contro la pace. E’ il “complesso militar industriale” a cui allude Nicola Lacetera (Domani, 25 settembre 2024), disposto a prolungare una guerra il più possibile, se questo permette di lucrarci sopra, per le commesse all’industria bellica o anche solo per le opportunità date dalla futura ricostruzione. Lacetera non nomina esplicitamente alcun conflitto in corso, ma parla di un paese aggredito e di altri che lo sostengono militarmente contro una potenza occupante, ed è legittimo pensare che faccia riferimento all’Ucraina. In questo caso, bisognerebbe ricordare che l’analisi dei bilanci per la difesa in Europa e negli Stati Uniti dipinge una realtà abbastanza diversa da quella di una congiura di generali stellati e malvagi proprietari di fabbriche di armi desiderosi di arricchirsi. Per trent’anni, dalla fine della Guerra fredda, gli europei hanno speso sempre di meno per la propria sicurezza, fino ad arrivare, agli inizi degli anni Duemila, a essere paesi virtualmente indifesi. Poi, Putin ha rilanciato il volto aggressivo di una Russia ansiosa di riprendersi il suo posto di superpotenza. E Germania, Francia, Italia e gli altri hanno ricominciato a pensare che non era il caso di affidarsi ciecamente all’utopia di una pace scontata, e alle illusioni sulla ragionevolezza dell’autocrate al Cremlino. Nel 2007, quando Putin si presenta alla conferenza sulla sicurezza internazionale di Monaco a proclamare la rinascita di un nuovo impero russo, gli investimenti in armamenti in Europa sono ancora al minimo storico dal 1945. Ed è solo nel 2014, quando Mosca arma le milizie nel Donbas e annette la Crimea, che si assiste a un netto aumento degli stanziamenti in armi e uomini. Molti soldi? Decisamente non abbastanza, secondo gli analisti riuniti dalla rivista Intereconomics per un forum sulla sicurezza del Vecchio mondo. Economisti specializzati, non esattamente una banda di neonazisti bellicosi. Le loro conclusioni sono sconfortanti.
Alcuni paesi più volenterosi (o semplicemente impauriti), come la Polonia e le repubbliche baltiche, hanno ormai superato la soglia del 2 per cento di pil fissato dalla Nato come minimo sindacale da investire per una credibile politica di sicurezza. Ma di fronte a una potenza militarista e minacciosa, come la Russia di Putin, gli eserciti europei restano piccoli, con armamenti inadeguati per un conflitto su larga scala, e la capacità di difesa antimissile è scarsa, per non dire nulla. Ecco, di questo si dovrebbe discutere sui quotidiani o nei talk show. Di come si potrebbe spendere meno e meglio se gli europei si decidessero a puntare su programmi comuni di riarmo, ed evitassero di cadere nella trappola dell’orgoglio nazionale (o delle industrie di casa da accontentare). Ma bisognerebbe parlare di dati, di numeri, di politiche e di armi, vere e funzionanti. Non di mostri e complotti.