Dick Cheney e Joe Biden nella sala blu della Casa Bianca nel 2009 (Foto di Charles Ommanney/Getty Images) 

Le due lezioni di Joe Biden

Giuliano Ferrara

Il presidente americano elogia il sostegno di Dick e Liz Cheney a Kamala Harris: si vince con il campo largo e rispettando la Costituzione

Che Dick Cheney e sua figlia Liz facciano campagna contro Trump e per Kamala Harris nell’ultimo miglio, proprio campagna, comizi nel loro stato, il Wyoming, è un fatto eccezionale. Biden se ne è compiaciuto con parole intelligenti e da ascoltare. Ha detto che i Cheney sono gente di carattere, che si può dissentire da loro in modo infernale, ma alla fine quello che conta è il carattere personale. Già, il carattere. Tutti sappiamo che Cheney non è un improvvisatore, un impulsivo, un imprevedibile. Come Rumsfeld e forse ancora più di Rumsfeld, che era filosofo della politica oltre che un duro nel linguaggio iperrealista, l’ex vice di W. Bush, ex segretario alla Difesa, repubblicano storico, è sempre stato considerato poco meno del diavolo dalla cultura chiacchierona del mondo democratico e progressista, liberal.

 

Una biografia di un giornalista del Washington Post, che lo danna con stile ma lo danna irrimediabilmente, lo definisce the angler, una cosa a metà tra un pescatore, uno che per raccogliere pesci usa delle esche, e la rana pescatrice, che usa un’escrescenza sul suo dorso per attrarre e catturare la preda. Comunque un predatore. Non propriamente un uomo di pace e di dialogo. Al suo confronto Netanyahu è una mammola. Infatti Cheney è all’origine di tutto quello che il buon liberal dei nostri anni wokeggianti dice di odiare. Non solo i bilanci opulenti del Pentagono, la centralizzazione efferata delle agenzie di intelligence, l’attivismo nella combinazione vincente finale della sfida elettorale Bush-Gore, le guerre in Afghanistan e in Iraq, la guerra internazionale al terrorismo islamista con i sequestri firmati Cia e i metodi spregiudicatissimi applicati negli interrogatori e codificati dai suoi impeccabili consiglieri legali capaci di una crudeltà tutta orientale, le deportazioni segrete dei bei ceffi di al Qaida, la prigione extra legem di Guantánamo Bay. C’è anche l’amicizia fraterna (battute di caccia comprese) con il grande Antonin Scalia, giurista conservatore e lettore originalista della Costituzione, c’è uno stile di riservatezza.

   

C’è una medietà non ridondante nella retorica politica che sono complementi di un’idea forte, coesa, intrattabile della democrazia moderna. Quando parlò senza grande impegno alla Convention di New York del 2004, e parlare, stupire, far sognare non erano la sua materia, l’Economist lo descrisse come un emulo di Yuri Andropov, il famoso ex segretario del Pcus che veniva da una lunga milizia nel Kgb. Se Rumsfeld amava stupire con il richiamo all’evidenza (“Perché caliamo le bombe? Per uccidere il numero maggiore possibile di nemici”), se Rumsfeld preferiva incantare l’uditorio con i suoi giochi logici misteriosi sui segreti della politica e della guerra, Cheney preferiva per sé il ruolo silenzioso del cappio che alla fine si strinse sul collo di Saddam Hussein, l’eroe di Tikrit, e condusse all’eliminazione di Bin Laden e della sua creatura sotto Obama. Kamala ha imposto lo schema fino a ora vincente della formula “politics of joy”, e molti cari auguri nella battaglia contro l’omo de panza e de paura con il toupet arancione, ma ora la vedremo dall’ambone parlare con l’uomo più intelligente e meno gioioso della recente storia americana.

        

Il carattere. Ecco che Joe Biden, un duro anche lui ma circonfuso di un alone di rispettose buone maniere della vecchia politica di partito, risolleva il tema. E così facendo ci spiega due cose. Primo, quanto è grande il pericolo di un candidato presidente che non accetta il risultato delle elezioni, fomenta l’assalto al Parlamento, gigioneggia con un linguaggio e un modo di fare autocratici, spietati e ridicoli insieme, quanto è importante fare coalizione larga, campo largo per dirla con una burletta, contro di lui. Secondo, quanto il carattere, l’integrità politica, sopravanza nel giudizio e nel pregiudizio il primato ideologico e identitario della cultura di schieramento. Woke, attenti alle ingiustizie, senz’altro, ma ancor più attenti a scegliere il meglio, anche il meglio di quanto in teoria riteniamo il peggio, per vincere con la Costituzione e la cultura democratica, contro i suoi ambiziosi affossatori potenziali.  
       

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.