(foto EPA)

reportage

Anche la speranza fa male nel giorno che dura da un anno : il 7 ottobre della famiglia Bibas

Micol Flammini

Shiri, Yarden, Ariel e Kfir. Il racconto di un'intera famiglia strappata dal kibbutz Nir Oz un anno fa

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Gadi, Yoram, Judith, Tamar, Bracha, Nir, Erez, Gil, Shahar, Tamir, Tal, Yaffa, Ela, Bar, Doron, Eyal. Nomi di vittime, di sopravvissuti, di ostaggi tornati, di ostaggi mai più visti. Nel kibbutz Nir Oz, al confine con la Striscia di Gaza, oggi si svolge una cerimonia solitaria, senza telecamere, senza macchine fotografiche, senza la stampa. Soltanto i famigliari delle vittime e i sopravvissuti sono ammessi a commemorare la ferita della comunità in cui il 7 ottobre sono state uccise più di quaranta persone, ne sono state rapite più di sessanta, venticinque sono ancora nelle mani di Hamas. Tra loro ci sono i Bibas: Shiri, Yarden, Ariel e Kfir, un’intera famiglia di cui tutti hanno in mente le immagini del rapimento trasmesse in diretta dal giornalista di Gaza Muthana al Najjar, entrato nei kibbutz durante l’attacco assieme ai terroristi per realizzare una cronaca pedissequa e festante dell’invasione e del massacro. Shiri Bibas venne condotta fuori dalla sua casa scalza, avvolta da una coperta sotto la quale stringeva e cercava di nascondere Ariel e Kfir, i suoi figli di quattro anni e nove mesi. Al Najjar nelle immagini indugia sul terrore della donna che si guarda attorno, tiene sotto la coperta le teste rosse dei due bambini, cerca con lo sguardo, tra gli spari che volano attorno, le urla, le case in fiamme, gli ordini impartiti dai terroristi, le risate del giornalista, il caos senza spiegazione, piombato all’improvviso sul kibbutz.

Shiri, probabilmente, cercava Yarden, suo marito, che venne subito separato dal resto della  famiglia. Per tre giorni i parenti di Yarden non hanno saputo nulla di lui, “Non sapevamo se fosse morto o vivo – racconta sua sorella Ofri – poi il 10 ottobre, il giorno del suo compleanno, abbiamo scoperto che era stato portato a Gaza, abbiamo visto i video”. Ofri ha visto, come tutti, le immagini del rapimento di suo fratello, ripreso dai terroristi mentre veniva trascinato nella Striscia: lo strattonano, gli mettono le mani in faccia, vogliono foto con il suo volto insanguinato, lo picchiano, gli sputano addosso. La seconda e ultima immagine di Yarden risale a gennaio: i terroristi lo misero davanti a una telecamera, gli dissero che Shiri, Ariel e Kfir erano morti.

 

L’esercito israeliano non ha confermato la loro morte. Quello che sappiamo di sicuro è che mio fratello in questo momento, in ogni momento, è convinto di aver perso tutto quello per cui viveva. Prima eravamo una famiglia normale, ora siamo i Bibas, e su questo nome, sui miei nipoti così piccoli, gli unici bambini rimasti in ostaggio, si concentrano le atrocità psicologiche di Hamas e le bufale di chi continua a inventare notizie sul loro destino. La nostra unica informazione certa è che Shiri, Ariel e Kfir sono arrivati vivi a Khan Younis”, la città nel sud della Striscia, la roccaforte di Yahya Sinwar. Ofri non lavora più, da un anno la sua vita è dedicata a Yarden, a Shiri e ai bambini, per fare di tutto per riportarli a casa. Dice di vivere con un macigno che trascina, le preme sul cuore, sulle spalle. Racconta che il suo primo impegno è quello di tenere suo fratello e tutta la sua famiglia vivi nella sua memoria: “Quando mi alzo, gioco con i miei figli, faccio il caffè, sono presenti in tutto. Davanti casa ho una strada sterrata, quando sento passare una macchina, ho sempre paura che vengano a dirmi che sono morti”. 

 

Ofri assomiglia molto a Yarden, ha gli stessi occhi, gli stessi colori scuri, un marchio famigliare che non è passato ai bambini, Ariel e Kfir, rossi, dalla carnagione chiarissima, molto più simili a Shiri, o a sua cugina Yifat, che parla con la voce chiara e gli occhi che non finiscono di piangere: “E’ da un anno che non smetto – dice senza neppure provare ad asciugare le lacrime – ma devo continuare a raccontare di loro anche se non so più nulla. Ho sempre una cortesia da chiedere ai giornalisti: per favore, parlate dei Bibas”. 

 

Il loro è un dolore difficile da riconoscere, impossibile da capire, è misto alla speranza, ma anche la speranza fa male, non lenisce, è un vetro tagliente: “Continuiamo a crederci: sono vivi, i bambini e Shiri sono vivi – dice Yifat – ma come fa Kfir, di un anno, a essere ancora in vita? Da quanto tempo non vede più il sole? Può  sopravvivere un bambino senza sole?”. Se lo domanda, lo domanda a Ofri, a noi, sa la risposta. La lotta per la famiglia Bibas e per tutte le famiglie degli ostaggi è un misto di speranza amara e dolorosa rabbia, di responsabilità e stanchezza: “Sono stanca di piangere, sono sfinita, ma devo andare avanti e quando sto per mollare sento la voce di mio zio Yossi, un vigoroso argentino con i capelli rossi che mi grida: ‘non mollare’”. Yossi Silberman era il padre di Shiri, era un pittore energico e spiritoso, morto durante l’attacco assieme a sua moglie Margit. Per giorni nessuno sapeva cosa fosse accaduto, non c’era traccia dei loro corpi, e i  telefoni erano localizzati a Gaza: i terroristi li avevano rubati. Margit e Yossi erano rimasti insieme nel mamad della loro casa, “a mia zia era stato diagnosticato il Parkinson, era peggiorata molto, non sarebbe mai riuscita a fuggire, mio zio Yossi avrebbe potuto, stava benissimo, era sportivo, sono sicura che abbia scelto di rimanere con lei”. Sono stati bruciati vivi, i terroristi hanno appiccato il fuoco alla  casa, per tre settimane si pensava che fossero stati presi in ostaggio, poi è bastato un frammento dei loro corpi: era tutto quello che era rimasto, due vite intrecciate ridotte a qualche osso ritrovato nella terra arsa, mescolato agli stralci di vita, di quotidianità, bruciati con loro. 

 

Shiri, se è viva, non sa nulla dei suoi genitori, non sa nulla di Yarden: il non sapere è una tortura, una condanna, è il proseguimento di quell’attacco, che va avanti ogni giorno anche nelle teste di Ofri, Yifat e Tomer, il cugino di Yarden che parla con una maglietta arancione addosso, dello stesso colore dei capelli dei due bambini. Tutti e tre hanno dei figli, l’ultimo di Ofri ha quattro mesi: “Ho scoperto di essere incinta due settimane dopo il 7 ottobre, non contavo i mesi della gravidanza, contavo quelli della lontananza di Yarden: coincidevano. Mi dicevo che sarebbe stato lui a scegliere il nome, provavo a crederci, ci ho creduto talmente tanto che ho aspettato fino alla fine”. Vivere è una responsabilità che si impara soltanto quando non è più scontato, quando non è più soltanto una ripetizione di azioni, di incontri, di volti, ma è una lotta: “Dobbiamo tenere sveglia la nostra battaglia per riaverli con noi, ma dobbiamo tenere vivo il nostro futuro, insegnare ai nostri figli a non diventare grandi  nell’odio e nella paura – spiega Yifat – Siamo stati cresciuti con l’idea della pace e del rispetto, ci è crollato addosso anche quello”. 

 

La battaglia è su più fronti, contro loro stessi e la loro disperazione, contro loro stessi e la depressione, che riconoscono, curano, scacciano. E’ contro i terroristi che hanno stracciato la tranquillità di una famiglia normale e idealista che credeva nella convivenza. E’ contro il mondo che non vede i crimini compiuti contro i kibbutz, contro i cittadini offesi, umiliati, torturati, rapiti, uccisi davanti a telecamere felici di riprendere l’eccidio. La battaglia è anche contro la politica, dalla quale i Bibas si sentono dimenticati, “non ci danno spiegazioni, non rispondono alle nostre domande, non ci vedono”, dice Ofri. E’ anche contro chi crede che la vita degli ostaggi sia sacrificabile, perché viene prima la sicurezza: “Io sono sicuro che lottare per liberare ogni rapito abbia molto a che fare con la sicurezza di questo stato”, Tomer lo dice senza esitare, riferendosi alla particolarità di una nazione   che dell’andare a salvare ovunque  ogni suo cittadino ne ha fatto un valore fondativo. “Questa non è una battaglia dei Bibas o delle famiglie che hanno qualcuno in ostaggio, è una missione nazionale, la maggioranza lo capisce”. Poi c’è la battaglia contro il silenzio, contro le parole che non vengono più, contro l’attenzione che scompare, che si volta di spalle, mentre Yarden, Shiri, Ariel, Kfir è tutti gli altri, più di cento, sono ancora intrappolati nel tunnel del vuoto di Hamas: “Quando perdiamo interesse negli ostaggi, quando non sapere più nulla di loro non è più un peso, ma è abitudine, allora sì che li abbiamo lasciati morire”, conclude Tomer, fermo come tutte queste famiglie in un 7 ottobre che dura da un anno.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)