(foto EPA)

7 ottobre

C'è un nitido antisemitismo in città. Parla Franklin Foer

Giulio Silvano

Lo scrittore e giornalista, autore del saggio "Il tabù di essere ebrei", ci racconta com’è cambiata l’accoglienza degli ebrei in America nell’ultimo anno. La svastica dietro casa

Franklin Foer ha una definizione e semplice e precisa dell’antisemitismo: “E’ la tendenza a fissarsi sugli ebrei”, dice il giornalista-scrittore, è la tendenza “a metterli al centro della narrazione, esagerando il loro ruolo nella società e descrivendoli come la causa principale di qualsiasi fenomeno indesiderato”.  Questa centralità appare bizzarra: gli ebrei “sono soltanto lo 0,2 per cento della popolazione globale”. 

Anche se cambia forma nel tempo, “l’antisemitismo torna sempre a una rimostranza essenziale – continua Foer – cioè che gli ebrei sono subdoli, assetati di sangue e di potere. L’antisemitismo spesso prende una forma simile: la disumanizzazione, la colpevolizzazione unilaterale e il feticizzare la perfidia ebraica”. 
Oltre a scrivere il libro definitivo sui primi due anni dell’Amministrazione Biden, L’ultimo dei politici(Longanesi) Foer, ebreo osservante, ha scritto dopo il 7 ottobre vari testi sull’antisemitismo negli Stati Uniti. Uno di questi è stato pubblicato dal Foglio con il titolo Il tabù di essere ebrei (il libro ha inaugurato la nostra nuova collana editoriale che propone libri tascabili grandi come uno smartphone). Foer scrive che l’epoca d’oro dell’ebreo americano – da Bob Dylan a Susan Sontag, da Steven Spielberg a Ruth Bader Ginsburg, da Philip Roth a Jerry Seinfeld – sta andando verso il declino. La rinascita di un aggressivo antisemitismo sta portando a termine un periodo storico in cui gli ebrei si sentivano sicuri nella società statunitense, potendo fiorire dalle arti alla politica, senza sentirsi minacciati. In questo ultimo anno le cose, però sono cambiate. L’America non è più il luogo più accogliente per la diaspora ebraica. Dopo il 7 ottobre, dice Foer al Foglio nell’anniversario dell’attacco di Hamas, tutto è cambiato. “E’ tutto diverso, o almeno così sembra. Prima del 7 ottobre c’erano già dei segnali di antisemitismo in crescita. Ed è stato Donald Trump a scatenarlo. Si vedeva già su Twitter nell’era di Elon Musk, dove l’odio per gli ebrei di colpo era dappertutto. Ma, ancora, sembrava in qualche modo distante. Ora invece l’antisemitismo esiste vivido nelle grandi città e nei campus universitari, luoghi fino ad allora sicuri, intimi, per molti ebrei americani. Non ho mai fatto esperienza dell’antisemitismo da vicino fino a quest’ultimo anno. Il mio rabbino, che è il mio vicino di casa, è stato ricoperto di insulti all’angolo con casa nostra. Sulla mia strada sono apparsi dei graffiti. Nella scuola di mia figlia sono apparse delle svastiche. Stiamo parlando di una minaccia seria?  Difficile da dire. Ma l’ansia è molto reale. E anche i presagi nefasti sono molto reali”. 

 

Per Foer l’antisemitismo era una caratteristica di una certa destra. I suprematisti bianchi che urlavano “Hail Trump” facendo il saluto nazista a Washington, o le folle dell’alt right a Charlottesville nel 2017, tra croci Deus Vult e bandiere confederate, che cantavano “gli ebrei non ci rimpiazzeranno”. Dopo il 7 ottobre però si è visto che anche la sinistra americana ha le sue responsabilità. “L’America è molto polarizzata. Tutti vogliono che la propria tribù sia quella virtuosa. L’altra parte è sempre cattiva. Ma, nella verità, entrambe le parti sull’antisemitismo hanno dei pessimi precedenti. Detto questo, sono rimasto positivamente colpito dalle energiche dichiarazioni di Kamala Harris”, vicepresidente dell’Amministrazione Biden e candidata alla presidenza per il Partito democratico. “E suo marito Doug Emhoff, che è ebreo – continua Foer – ha reso la lotta all’antisemitismo il suo segno distintivo. Vorrei che Donald Trump fosse in grado di prendere la questione altrettanto seriamente. E invece continua a dire cose pericolose, ammiccando a chi diffonde pericolosamente l’odio”. 

 

Le prese di posizione della sinistra americana dopo l’attacco di Hamas e la risposta israeliana sono riuscite a creare delle fratture nell’ampia coalizione democratica, che fino ad allora sembrava solida, unita intorno al presidente Joe Biden. Quando al Congresso si è dovuto votare per esprimere sostegno a Israele, ci sono state persone, come le deputate democratiche Ilhan Omar e Rashida Tlaib, che hanno votato contro. Tlaib, figlia di immigrati palestinesi, nata a Detroit, rappresenta un distretto del Michigan a maggioranza musulmana, e ha attaccato Biden per “aver appoggiato il genocidio del popolo palestinese” difendendo anche l’uso del canto “from the river to the sea”, definendolo una “richiesta di libertà”, e considerato invece un appello alla distruzione dello stato ebraico. Foer ci dice che “l’antisemitismo di sinistra prende la forma dell’antisionismo. La sinistra è troppo garbata, troppo corretta, per fare delle dichiarazioni rozze sugli ebrei nello stesso modo in cui li fanno gli antisemiti di destra. Ma, nonostante questo, usa gli elementi caratteristici dell’antisemitismo. Condanna l’influenza dei soldi degli ebrei. Accusa gli ebrei di duplicità. Parla di burattinai ebrei che controllano il mondo. A sinistra la parola sionismo è diventata la parolaccia più impronunciabile di tutte. E c’è anche un tentativo di escludere i sionisti dal partecipare alle coalizioni politiche di sinistra e centrosinistra. Purtroppo, questo lo vediamo palesemente nei campus delle università d’élite”. Le proteste ad Harvard o alla Columbia hanno infiammato la scorsa primavera, prima che gli studenti tornassero a casa per le vacanze, con disordini, occupazioni delle aule e canti antisionisti, studenti ebrei allontanati dal campus solo perché portavano la kippah. L’incapacità di alcuni presidenti di queste università Ivy League di condannare l’antisemitismo nei campus ha portato alle loro dimissioni. “Negli anni 2000 gli ebrei a Yale erano il 20 per cento del corpo studenti, ora sono la metà”. Secondo Foer la frase della presidente di Harvard in risposta alla domanda se c’erano stati attacchi antisemiti – “dipende dal contesto” – equivale a dire che “gli ebrei non sono una priorità”. Ora sappiamo che nelle occupazioni dei campus erano presenti diversi infiltrati che hanno sfruttato la situazione per attaccare Israele e l’America e la polizia, ma è indubbio che nelle aule, nei decenni, si è sviluppato un profondo sentimento anticolonialista che oggi ha portato a questo. “Non c’è dubbio che i professori siano, in parte, da colpevolizzare”, dice Foer. Hanno trasformato le aule universitarie in allevamenti per l’attivismo politico. Hanno reso più difficile la sopravvivenza di una cultura basata sul ragionamento, sulla discussione e sulla pluralità politica. Quello che è successo nei campus è il sintomo di un problema più grande”. Anche in certi licei gli studenti ebrei si sono sentiti a disagio quando altri ragazzi, vedendoli nel corridoio, urlavano “Palestina libera”, come se un adolescente fosse responsabile delle decisioni strategiche dell’Idf. A Filadelfia una folla inferocita ha attaccato un ristorantino kosher di falafel. Come ricorda Foer, “nei tre mesi successivi all’attacco, l’Anti Defamation League, ha registrato in America 56 episodi di violenza fisica contro gli ebrei e 1.347 attacchi verbali antisemiti”.   

 

Ci si chiede che influenza abbia avuto l’attacco di Hamas e la risposta di Israele sulla carriera politica di Joe Biden, soprattutto quando era ancora candidato alla presidenza, prima che quest’estate si ritirasse per far andare avanti la sua vice Harris. “Il 7 ottobre probabilmente è stato l’inizio della fine per le speranze di rielezione di Joe Biden. Il suo solido appoggio a Israele l’ha messo in conflitto con la base del suo partito. Di colpo, ovunque andava, veniva fischiato. E la guerra l’ha fatto sembrare debole”. Dall’altra parte Trump prova ogni tanto a convincere l’elettorato ebraico che lui è il presidente migliore per loro. Ai comizi dice cose come: “Gli ebrei in America, e tutte le persone che amano essere ebrei e amano Israele, sono degli scemi se votano per un democratico”. Ma allo stesso tempo è stato accusato più volte lui stesso di antisemitismo, così come il suo entourage, viste anche le figure politiche che l’hanno scelto come alleato, dagli ex membri del Kkk a Kanye West, o considerati gli attacchi a George Soros fatti da Elon Musk. Le frasi di Trump, dice Foer, “sono disgustose e pericolose. Come le persone che protestavano nei campus, Trump vuole dividere il mondo in bravi ebrei e cattivi ebrei. Vuole colpevolizzare gli ebrei per la sua sconfitta, se ci sarà. Sappiamo bene cosa succede quando Trump dà la colpa ai suoi nemici. Diventano bersaglio di violenza”. Venticinque anni fa il senatore Joe Liberman, ebreo osservante, era candidato alla vicepresidenza assieme ad Al Gore nel ticket democratico. Nessuno parlava del suo giudaismo, era semplicemente un senatore moderato del Connecticut. Oggi invece la politica identitaria la trasformerebbe in una caratteristica chiave. “Però – dice Foer –  la maggior parte degli americani oggi accetterebbe un candidato ebreo. Il problema non è la maggioranza. Il problema sono gli estremi dello spettro politico”. 

 

Tra gli ostaggi del 7 ottobre c’era anche un cittadino americano-israeliano, Hersh Goldberg-Polin, che a 23 anni è stato rapito al festival musicale di Re’im e poi ucciso dai terroristi di Hamas, ritrovato a fine agosto in un tunnel di Rafah, nella striscia di Gaza. Alcuni vedono la sua morte come un momento di svolta nelle negoziazioni. “Sì – ci dice Foer – penso che il suo omicidio abbia reso un accordo per la pace quasi impossibile da immaginare. Hamas e Israele non erano mai stati così vicini dal trovare un consenso per la pace come giorni prima del suo assassinio. Ma Hamas ha ucciso le sue carte migliori per una possibile negoziazione. E poi ha aumentato notevolmente le sue richieste. Ora, i palestinesi di Gaza sono arenati, bloccati. Il mondo ha rivolto la sua attenzione da un’altra parte e non c’è speranza per un accordo imminente per un cessate il fuoco”. 

 

Dalla risposta israeliana su Gaza dopo l’attacco di Hamas, anche chi critica la politica di Benjamin Netanyahu si trova di fronte persone che non riescono a slegare le politiche di questo governo dal mettere in dubbio l’esistenza stessa di Israele. “E’ molto triste che il mondo non accetti questa distinzione”, ci dice Foer. “Come Trump, Netanyahu è un pessimo leader, corrotto, sconsiderato, narcisista. Ma non rappresenta la totalità del paese. E allo stesso tempo, anche il modo in cui viene ritratto è terribile. Viene dipinto come un uccisore di neonati assetato di sangue. Ma non lo è, anche se è ignobile. Anzi, a dire il vero lui è indeciso e riluttante rispetto all’uso della forza. Continua in ogni momento a cercare con cautela di proteggere la propria carriera. Io posso criticare Xi Jinping senza denunciare l’esistenza della Cina. Non vedo perché il mondo non possa permettere agli ebrei di fare la stessa cosa”.

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