(foto EPA)

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Cosa vuol dire davvero essere soffocati da Hezbollah

Rolla Scolari

Corruzione, immobilismo, repressione e la guerra permanente. La tirannia del Partito di Dio sui libanesi

Le pareti sono rinforzate da sacchi di sabbia, c’è buio all’interno del bunker: si intravedono gli Ak-47 appoggiati ai muri e le bandiere gialle di Hezbollah. Vicino ai resti di un carro armato israeliano Merkava, s’illumina uno schermo: uomini in mimetica portano sulle spalle i lanciarazzi, altri sparano missili verso la città di Haifa, porto nel nord di Israele. Al termine del video, il segretario generale del Partito di Dio Hassan Nasrallah proclama la vittoria davanti a una enorme folla urlante.  Sono lontani i giorni in cui le milizie sciite libanesi di Hezbollah celebravano, con la costruzione di un museo temporaneo nei sobborghi sud di Beirut, loro roccaforte, i successi del conflitto contro Israele dell’anno prima. Non era stata una vittoria, in realtà, quella del 2006, ma un sanguinoso stallo durato 34 giorni. Eppure, il carisma e le capacità comunicative del disciplinato e spietato leader Nasrallah – ucciso il 27 settembre da un massiccio bombardamento israeliano su Beirut – avevano trasformato quel conflitto in una vittoria mediatica del movimento libanese: i soldati israeliani si erano ritirati dal Libano e il movimento armato era ancora vivo. 

 

Così, i riverberi di quella guerra, la gloria dell’aver arginato Israele, “il nemico pubblico” numero uno di un mondo arabo ancora legato a vecchi regimi e antichi eserciti – nella maggior parte dei casi sconfitti sul campo di battaglia dai militari israeliani – aveva reso Hezbollah l’eroe del momento in gran parte della regione, rafforzato il fascino della sua “resistenza”.  Molto è accaduto però da allora in medio oriente e il movimento sciita libanese fa i conti oggi con un mondo diverso: i regimi arabi sono stati messi per la prima volta in dubbio, nel 2011, da rivolte popolari che chiedevano diritti, riforme, democrazia. E poco importa se quelle voci sono state messe a tacere, perché il genio è ormai uscito da quella lampada. “La differenza con il passato è che prima esisteva tutta una parte di libanesi che benché non sostenesse Hezbollah forniva comunque al gruppo una copertura sociale e politica quando l’aggressore era Israele. Ora non è più così”, ci spiega Thanassis Cambanis, direttore di Century International, autore tra gli altri libri di “A Privilege to Die: Inside Hezbollah’s Legions and Their Endless War Against Israel”. Nel frattempo, un tribunale delle Nazioni Unite ha condannato in absentia un membro del movimento per l’assassinio, il giorno di San Valentino del 2005, dell’ex premier libanese, Rafiq Hariri, e della sua scorta; nel 2019, decine di migliaia di persone sono scese in strada in Libano contro il sistema politico istituzionale settario, la corruzione delle sue caste, le banche che hanno dilapidato il paese. Era allora emerso un inedito dissenso anche nelle roccaforti del sud di Hezbollah, in quei villaggi o quartieri dove il solo presentarsi straniero e fare qualche domanda in strada costa allo sconsiderato visitatore almeno un immediato controllo da parte del capillare servizio di sicurezza del movimento. Figurarsi che cosa può causare una protesta. E poi, è accaduto l’indicibile: l’esplosione al porto dell’agosto 2020, che ha lasciato a pezzi Beirut e il Libano tutto, nella quale ha avuto un ruolo l’operato di Hezbollah, che ha fatto il possibile, in seguito, per affossare l’inchiesta indipendente sulla strage in cui morirono oltre 200 persone. 

 

Se nel 2006 i membri di Hezbollah erano patrioti che si stavano sacrificando per il Libano, oggi sono un attore sporco, come qualsiasi altro attore sporco nel paese, sono delinquenti pronti a far saltare in aria tutta Beirut, sono i più grandi contrabbandieri del Levante e i loro sostenitori ottengono elettrodomestici o generi alimentari a prezzi ridotti perché il gruppo controlla i porti e le dogane”, spiega Cambanis. La sua profonda base sciita resta larghissima e radicata in tutto il Libano, soprattutto nella parte meridionale del paese. L’azione di Hezbollah a livello sociale, come pervasivo stato nello stato e garante di un welfare parallelo e di privilegi settari, attira quanto la sua ideologia. E come dimostrano le immagini delle frequenti manifestazioni e degli eventi organizzati dal gruppo nelle sue roccaforti – le parate militari, i discorsi dei suoi leader – Hezbollah resta un radicato movimento di massa, con decine di migliaia di sostenitori fedeli e migliaia di combattenti pronti a partire al fronte. Altrove nella società libanese il movimento non rappresenta più, come quando ha fatto la sua comparsa nella politica locale negli anni Novanta, una alternativa alla corruzione settaria, ma si nutre in pieno del marcio delle élite. “Ogni tappa del crollo sociale e politico del Libano rafforza questi delinquenti”, sostiene Cambanis.

 

Che Hezbollah fosse un prodotto di autocrazia e teocrazia – nello specifico quella nata dalla rivoluzione iraniana del 1979 – è diventato soltanto più evidente nel 2013 quando le milizie sciite sono entrate a pieno nel conflitto siriano, accanto ad altri gruppi satellite dell’Iran e alle stesse Guardie rivoluzionarie di Teheran, sostenuti dall’aviazione russa. Senza il loro intervento, che ha causato centinaia di migliaia di morti tra i civili siriani, il brutale regime del dittatore Bashar el Assad oggi sarebbe un ricordo lontano. Le milizie sciite libanesi hanno oltrepassato allora una linea rossa. Come ricorda Cambanis, Hezbollah credeva da tempo di avere il diritto ideologico di intervenire in altri teatri di guerra: comandanti militari e veterani viaggiavano già in Iraq o in Yemen per fornire sostegno e addestramento ad altri gruppi armati pro Iran nella regione. In Siria, però, il Partito di Dio ha ridiretto il suo arsenale e puntato le sue armi – di cui giustifica in Libano l’esistenza dagli anni Ottanta con la difesa del paese da Israele – contro quei fratelli arabi che chiedevano riforme, libertà e democrazia. 
Se l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 aveva dato coraggio a cosiddetti movimenti di “resistenza” antioccidentali come Hezbollah, al quale dopo il ritiro israeliano nel 2000 dal Libano occorreva una rinnovata giustificazione per il mantenimento del suo arsenale, se la guerra del 2006 aveva riconsegnato un momento di fama al gruppo, il sostegno dei suoi combattenti al sanguinario dittatore Assad ha mostrato a gran parte della regione che più che un movimento di resistenza popolare, le milizie sciite libanesi erano un attore dello status quo, una forza conservatrice come tante altre, spiega sempre Cambanis. E forse questo è uno dei motivi per il quale, dall’8 ottobre, da quando Hezbollah – non uno stato sovrano ma un gruppo armato e movimento politico considerato terroristico da diversi governi occidentali – ha aperto un fronte attraverso il lancio dei suoi razzi sul nord di Israele “in solidarietà” con i palestinesi di Hamas a Gaza, non ha mai alzato il livello dello scontro neppure quando era l’esercito israeliano a farlo. Una risposta plausibile è che Hezbollah sia nel frattempo diventato talmente trincerato in questo suo status quo da non poter in realtà permettersi di mettere a rischio gli equilibri regionali che lo proteggono. Che è un po’ quanto accaduto: i colpi possenti inferti nelle ultime settimane da Israele alle milizie libanesi, dall’esplosione di migliaia di cercapersone nelle tasche dei loro membri all’uccisione del leader Nasrallah, hanno obbligato Teheran a un intervento diretto senza precedenti, scongiurato negli anni proprio dalla stessa esistenza di quei gruppi, come Hezbollah in Libano, sapientemente creati e sostenuti nel tempo per difendersi. E di un tempo lunghissimo si tratta, se si pensa che il gruppo armato sciita libanese è nato, nel solco dell’ideologia teocratica della rivoluzione islamica del 1979 a Teheran, negli anni Ottanta, con lo scopo di contrastare l’invasione israeliana del sud del Libano. Gli israeliani sono entrati nel paese per restarvi 18 anni nel 1982 con l’obiettivo dichiarato da Israele di bloccare gli attacchi delle milizie dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Soltanto negli anni Novanta, sotto la guida di Hassan Nasrallah, Hezbollah si è trasformato anche in movimento politico di peso, capace di bloccare, negli anni, a diverse riprese, la vita politica del piccolo Libano.   

 

“Cinquant’anni che dura così. Eccoci di nuovo alla casella di partenza, a prendere colpi come se fossimo, per natura, destinati a farlo… Ancora una volta, volenti o nolenti, siamo imbarcati senza consultazioni in una nuova avventura assassina, perché così ha deciso Hezbollah”, ha scritto nei primi giorni dei devastanti bombardamenti israeliani su Beirut Fifi Abou Dib, giornalista ed editorialista di L’Orient-le Jour, quotidiano francofono, sicuramente ben lontano dalle posizioni di Hezbollah e dei suoi alleati, legato a quella parte di paese che  non si ritrova in un’ideologia di guerra permanente ma che non ha a sua disposizione istituzioni politiche rappresentative e funzionanti capaci di prendere in mano la situazione. In Libano, dal 2022 manca un presidente e il governo è da lungo tempo ad interim. Lo speaker del Parlamento, Nabih Berri, da sempre mazziere della politica locale, non convoca l’Assemblea per l’elezione del leader in mancanza di un consenso di Hezbollah sul nome.

 

Un drone israeliano sorvola il palazzo, mentre la giornalista Fifi Abou Dib parla al telefono da Beirut. “La prima prova per capire se dopo quanto è accaduto in Libano qualcosa possa cambiare passa proprio dal Parlamento”, ci dice. Se lo speaker lo aprisse per favorire l’elezione del presidente, allora avremmo un segnale positivo in una società al collasso, socialmente, economicamente e politicamente. “L’esplosione al porto, nel 2020, si è aggiunta alla paralisi creata dalla pandemia di Covid-19, al crollo economico. Quanto accaduto al porto di Beirut ha piegato la parte più vibrante e creativa della capitale. I quartieri più vicini al mare, come Gemmayze e Mar Mikhael, sono il luogo della diversità, culla della comunità Lgbtq+ nel paese, e anche per questo sono stati trascurati dall’establishment e dai conservatori di Hezbollah dopo la strage”. 

 

Sono questi anni che hanno fatto male al Libano quasi più della sua guerra civile, durata dal 1975 al 1990. Da allora, sostiene Fifi Abou Dib, la mentalità della popolazione è cambiata: la povertà, che secondo la Banca mondiale toccherebbe il 44 per cento dei libanesi, “uccide l’intelletto: si sta appresso alla propria sopravvivenza, a come guadagnarsi da vivere. Hezbollah assieme agli altri partiti ha fatto di tutto per mandare al collasso il paese, rendendolo un campo di battaglia in cui a decidere e a governare è l’Iran. Il Libano è in guerra da 50 anni. Nessun pensiero libero può restare qui: guarda quello che succede a chi ha un’opinione, guarda quanto è accaduto a Lokman Slim”. Non era soltanto un attivista, come spesso è stato parzialmente descritto, Lokman Slim, sciita e tra le voci più critiche di Hezbollah in Libano. Era un intellettuale, un editore, uno scrittore raffinato; aveva fondato nel 2005 una organizzazione non governativa, Hayya Bina, iniziativa civica laica e liberale. E’ stato trovato morto a bordo della sua auto con sei proiettili in corpo nel febbraio del 2021, nel sud del Libano. L’inchiesta sul suo assassinio, come quella sull’esplosione al porto, si è arenata da tempo. E senza un processo, si sa, non può esserci un colpevole.

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