(foto EPA)

la ricorrenza

Il mondo rovesciato dall'odio, dopo il 7 ottobre

Jennifer Wilton

Le parole che sono rimaste nella gola il 7 ottobre, quelle che non riusciamo a trovare e le piazze di Berlino piene per sostenere i carnefici e non le vittime. Israele tornerà a ballare, noi dovremmo essere migliori delle nostre promesse

La frase si è fissata nella testa molto rapidamente, quel giorno di un anno fa: non ci sono le parole. Non è andata più via. Le parole mancano spesso ancora oggi, in questo nostro mondo dopo il 7 ottobre. Le prime notizie che arrivavano quel sabato da Israele erano terribili ma in qualche modo conosciute: un attacco, un allarme, razzi, terroristi, morti, feriti, rapiti. Un dramma, un incubo. Ma sono termini che questo paese martoriato e coraggioso si porta con sé da decenni. Israele si è abituato al fatto che queste parole facciano parte della quotidianità, perché non si ha altra scelta. Anche qui, a migliaia di chilometri e più di distanza, ci si è abituati, perché la gente può permettersi di essere stanca di questo conflitto lontano. Ma quel giorno le notizie non finivano più.

 

Il pomeriggio: immagini che sfuggivano alla comprensione. Il giorno dopo: video con scene apocalittiche, di una crudeltà difficile da accettare come reale. E’ stato uno sparo? E’ un bambino quello tra le sue braccia? Dove stanno correndo? Da dove vengono quei segni? Cosa c’è che non va nella sua gamba? Dov’è il suo volto? Perché ridono? Perché? E questo era solo l’inizio. Dalla comoda sicurezza della   Germania di oggi,  possiamo soltanto immaginare il dolore che il 7 ottobre ha portato al popolo di Israele. E’ difficile prevedere quanto tempo ci vorrà per superare il trauma di quel giorno, se mai sarà possibile. La guerra ora sovrasta tutto e rende anche più facile dimenticare come tutto questo è iniziato – se lo si desidera. Per questo è necessario ripeterlo: è iniziato con un attacco terroristico senza precedenti contro Israele. Un attacco alla popolazione, il più brutale, il più crudele degli ultimi ottant’anni. Un attacco contro l’umanità.


Allora  per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”. Non ci sono le parole: naturalmente non ci si può nascondere dietro questa frase. Tanto meno qui, a migliaia di chilometri di distanza. Tanto meno in Germania. Più rapidamente di quanto il più pessimista degli osservatori avesse previsto, anche qui, in quel mese di ottobre e nelle settimane successive, è accaduto qualcosa senza precedenti, che si è protratto per mesi. Per le strade è esploso l’odio. Non contro coloro che avevano ucciso e trucidato, che avevano trasformato un festival musicale e i kibbutz, luoghi di festa e  convivenza pacifica, in campi di battaglia medievali, ma contro le vittime. Un’inaudita inversione tra il carnefice e le vittime: la parola è infine comparsa, ma è troppo piccola.

 

Già il giorno stesso, a Berlino, c’era chi distribuiva dolci per strada per celebrare il massacro di Hamas. Ancora prima dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano a Gaza, sono iniziate le prime manifestazioni di massa contro lo stato ebraico. Sventolavano bandiere palestinesi e si invocava la distruzione di Israele, e studenti tedeschi delle migliori scuole, con tutti i privilegi, portavano la loro solidarietà ai terroristi. A un certo punto, alcuni giovani si erano seduti davanti al ministero degli Esteri tedesco chiedendo di  “liberare la Palestina dalla colpa tedesca”. E’ stato solo uno dei tanti momenti in cui manifestanti, immigrati e di sinistra, si univano per gridare slogan antisemiti. Persone che per anni avevano manifestato a gran voce il loro presunto impegno contro il razzismo e l’odio verso l’umanità ora erano silenti. Molte erano rimaste senza parole.

 

I cittadini ebrei non si sentono più al sicuro nella loro quotidianità e nelle loro strade. Nelle scuole e nelle università. Le kippah e le stelle di David sono scomparse definitivamente dalle tasche e dalle strade. Uno studente è stato aggredito: hanno dovuto ricoverarlo in ospedale. Alcuni eventi sono stati interrotti per le contestazioni. Alcuni edifici sono stati occupati. Alcune aule sono state vandalizzate. Le facciate delle case sono state imbrattate, di recente anche quella di un politico che si è sempre espresso contro l’antisemitismo: l’assessore di Berlino per la Cultura, che è nero, era stato insultato come razzista durante un evento da attivisti bianchi.
Questi sono solo alcuni frammenti di una nuova realtà. In una città da cui più di 50 mila ebrei furono deportati nei campi di sterminio, dove per decenni si è ripetuto “mai più”, gli ebrei ora hanno paura. Le manifestazioni che ricordavano quella promessa e chiedevano solidarietà alle vittime ebree erano mezze vuote. La parola “perché” alla fine è rimasta bloccata in gola.
Non ci sono più le parole. Per molte domande resta solo una risposta: l’odio contro gli ebrei. Da anni quasi nessuna commemorazione in Germania si conclude senza la solita frase: l’antisemitismo non ha spazio nella nostra società. Ma è sbagliata. L’antisemitismo è ovunque, probabilmente c’è sempre stato, si sta diffondendo, ed è più presente che mai dal 7 ottobre. Si insinua dagli estremismi di destra, di sinistra e islamici verso il centro della società, dove probabilmente   stava solo covando, in attesa.

 

Nelle settimane che sono diventate mesi in cui vecchi, giovani, madri, nonni, nipoti continuano a essere tenuti prigionieri nei tunnel bui dei terroristi di Hamas, è iniziata una guerra che in realtà non si era mai fermata. Israele combatte a Gaza, Israele viene bombardato a nord da Hezbollah, a Damasco viene attaccato l’edificio dell’ambasciata iraniana, l’Iran bombarda Israele, la milizia houthi attacca Tel Aviv, Hezbollah lancia un attacco missilistico sulle alture del Golan... la sofferenza della popolazione civile è grande. Ovunque. Le manifestazioni in Israele sono anch’esse grandi, e costanti. Si protesta, in uno stato democratico.
All’estero, ma anche in Germania, i politici tedeschi devono continuamente spiegare cosa significhi l’espressione “ragion di stato”, e alcuni fanno comunque fatica a comprenderla. Ma non è difficile da capire: è una linea guida politica. Una linea guida cui si attiene il governo della Germania, che aiuta i politici a orientarsi. L’ex cancelliera Angela Merkel disse nel 2008, davanti al Parlamento israeliano, che la sicurezza di Israele è ragion di stato. Il cancelliere Olaf Scholz lo ha ripetuto nell’ottobre 2023, pochi giorni dopo l’attacco terroristico di Hamas. La sicurezza di un luogo per persone che non possono sentirsi sicure in nessun altro posto in questo mondo: è questo che milioni di persone hanno ricordato negli ultimi mesi. Eppure non vengono nemmeno protette da istituzioni come le Nazioni Unite, fondate proprio per questa ragione dopo il 1945. Al contrario. Il consiglio per i Diritti umani, che si propone di garantire la sicurezza dell’umanità, per lungo tempo non è riuscito a condannare uno dei massacri più crudeli di civili degli ultimi decenni.

 

C’è un’accusa, solitamente formulata in modo più sottile rispetto agli slogan banali gridati davanti al ministero degli Esteri alcuni mesi fa, ma altrettanto semplice: la Germania, a causa del capitolo più oscuro della sua storia, la Shoah, non avrebbe una visione obiettiva del presente. E’ una tesi quantomeno originale, soprattutto quando è sostenuta da membri dell’Assemblea generale dell’Onu. Tra i paesi rappresentati lì ci sono alcuni che difficilmente si possono definire democrazie, e altri che abitualmente violano i diritti umani. Ci sono comunque più risoluzioni contro lo stato ebraico che contro tutti gli altri paesi messi insieme. Più offuscata di così, una visione non può essere.


“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.


Queste sono le parole di Primo Levi, quando cercò di descrivere l’orrore che aveva vissuto dopo il 1945. Molti anni dopo, Levi scrisse  un’altra cosa: “E’ successo, quindi può succedere di nuovo”.  Sono stati gli israeliani che hanno vissuto e sono sopravvissuti al 7 ottobre a tracciare il parallelismo con quel crimine contro l’umanità unico che è la Shoah.
Non ci sono più le parole: non solo perché mancano, perché rimangono bloccate in gola, perché sono inadeguate. Non ci sono più le parole anche per la disperazione. Per la rassegnazione e per il sospetto che di parole, di avvertimenti, di promesse ce ne siano già stati fin troppi ma non siano serviti a nulla: quindi può succedere di nuovo.
Naturalmente questa è un’idea inaccettabile. Tantomeno qui, a migliaia di chilometri di distanza, in occidente, al sicuro: perché ci sono troppe persone che hanno molti più motivi per essere rassegnate, ed è esattamente ciò che non sono: rassegnate. Torneranno a ballare, e chi vive nella sicurezza dovrà diventare migliore nel mantenere le proprie promesse.

 

Jennifer Wilton è editor in chief del quotidiano tedesco Die Welt.

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