dopo il 7 ottobre

Il nemico interno d'Israele secondo Ronen Bergman

Cecilia Sala

Il giornalista che ha fatto le rivelazioni più formidabili sul Mossad ci parla della minaccia che viene da dentro

Quando Ronen Bergman aveva 23 anni, Meir Kahane era stato da poco eletto alla Knesset. L’obiettivo politico di Kahane era la deportazione di tutti i cittadini palestinesi di Israele fuori dai confini dello stato. All’epoca il presidente, Ezer Weizman, si rifiutava di rivolgere la parola al parlamentare Kahane, che la maggioranza degli israeliani considerava un fascista, dunque un nemico esistenziale.

Quando Kahane interveniva dal podio della Knesset, i parlamentari del Likud, il partito di Benjamin Netanyahu, lasciavano l’aula. Fu la destra del Likud, non il partito laburista, a proporre di rivedere la legge elettorale affinché prima di tornare alle urne nel 1998 Kahane fosse squalificato dalla corsa – e lo fu. Nel 1995 la madre di Bergman tornò a casa sconvolta dopo una conversazione con alcuni conoscenti, uno dei quali le aveva detto: “Non è un dramma se fra tante fazioni politiche ce n’è anche una che propone una soluzione molto radicale: deportare tutti i cittadini arabi”. La madre di Bergman è sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, e l’idea che cinquant’anni dopo qualcuno in Israele potesse ipotizzare una grande deportazione di cittadini su base razziale – tutti gli arabi in quanto arabi – le fece perdere il sonno. Quest’anno Ronen Bergman, che ha vinto il premio Pulitzer per la copertura della guerra a Gaza, ha pubblicato un’inchiesta sul Magazine del New York Times dal titolo: “Gli impuniti. Come gli estremisti hanno preso il controllo di Israele”, frutto di un lavoro sul campo durato otto anni e mezzo. Le fonti dell’inchiesta non sono le organizzazioni non governative, ma centinaia di uomini che lavorano per garantire la sicurezza di Israele. 

Bergman scrive per il New York Times e per il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, è il giornalista con le fonti migliori negli apparati di sicurezza del suo paese e ha pubblicato il libro più importante sull’intelligence dello stato ebraico, “Rise and kill first” (in italiano: “Uccidi per primo”, Mondadori, 2018). Così quando nel 2015 un gruppo di terroristi ebrei lanciò delle bombe incendiarie dentro a una casa palestinese uccidendo una famiglia – la madre, il padre e il figlio di diciotto mesi – Bergman domandò a uno dei sui contatti, il generale ed ex capo dei serivizi di sicurezza interni Ami Ayalon, come mai, visto che lo Shin Bet era bravo a prevenire e punire il terrorismo arabo, fosse incapace di usare le stesse tecniche per fermare il terrorismo ebraico. Il generale rispose che il problema era politico e non tecnico. Ayalon fa parte della vecchia generazione che ancora comanda il Mossad, le Forze armate e lo Shin Bet, che mette la sicurezza al primo posto e vede Israele come una democrazia in cui la legge protegge e punisce tutti allo stesso modo. Per molti israeliani negli apparati militari e d’intelligence come Ayalon, la clamorosa vittoria nella Guerra dei sei giorni del 1967 doveva essere usata in un modo preciso: scambiare la terra con la pace, restituire i territori conquistati in cambio del riconoscimento del proprio diritto a esistere da parte dei vicini arabi. Per una minoranza molto determinata di ebrei quella vittoria aveva un significato diverso: il compimento della grande Israele biblica a scapito degli arabi.


L’obiettivo  di Kahane era la deportazione di tutti i palestinesi. Quando interveniva dal podio della Knesset, i parlamentari del Likud, il partito di  Netanyahu, lasciavano l’aula. Oggi i seguaci di Kahane sono al potere


L’impunità comincia con i primi insediamenti costruiti in Cisgiordania negli anni Settanta, che violano la legge marziale dello stato di Israele. I militari non sono contenti, ma la politica preferisce tollerare le piccole colonie alla prospettiva di mandare degli ebrei armati a deportare altri ebrei – non erano trascorsi neanche trent’anni dall’Olocausto. L’impunità prosegue sotto forma di tolleranza e disinteresse nei confronti delle intimidazioni, dei furti di terra e di bestiame, della distruzione della proprietà privata e degli omicidi di palestinesi. La stampa israeliana non copre questi casi, i cittadini non vedono i crimini. Quando alcuni terroristi ebrei piazzarono delle cariche esplosive nelle auto di tre sindaci palestinesi, il Procuratore generale non se ne accorse, servì che alcuni professori universitari di Gerusalemme gli spedissero una lettera per avvisarlo. I terroristi ebrei che nel 2015 hanno ammazzato una famiglia palestinese mentre dormiva non sono stati puniti. Nel febbraio del 2023 centinaia di coloni si sono presentati nel villaggio palestinese di Huwara e hanno appiccato il fuoco a case e automobili dei residenti in quello che il comandante israeliano responsabile della zona ha definito “un pogrom”. Il comandante fa parte della corrente secondo cui in Israele la legge è uguale per tutti, che è ancora la fazione maggioritaria ma non è più l’unica dentro alle forze armate. “E più passa il tempo e i comandanti per cui un omicidio è un omicidio soltanto se il morto è un ebreo non vengono puniti, più i loro metodi vengono replicati e la fazione degli impuniti acquista potere” dentro l’esercito, dice Bergman. 

Il giorno del pogrom di Huwara più di cento palestinesi sono stati feriti e un ragazzo è stato ucciso, la polizia ha provato a sostenere che potrebbe essere morto d’infarto anche se in una foto del corpo all’obitorio – che Bergman conserva sul suo smartphone – si vede un foro di proiettile in mezzo al petto dell’uomo. I poliziotti, che rispondono al ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, non hanno indagato l’omicidio nonostante una GoPro attaccata sul giubbotto antiproiettile di un agente abbia ripreso la scena del delitto. Poco dopo il raid a Huwara da parte degli ebrei estremisti il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, un leader colono responsabile dell’amministrazione della Cisgiordania, ha detto che l’esercito dello stato ebraico avrebbe dovuto “spazzare via” il villaggio palestinese. Tsahal non lo ha ascoltato. “Ma dal 7 ottobre, su ordine del ministro della Sicurezza Ben Gvir, la polizia israeliana ha smesso di rispondere alle telefonate dei palestinesi che chiamano il centralino quando si sentono in pericolo”, racconta Bergman. 

 

Il punto di svolta – dice Bergman – è il 2005, quando il primo ministro Ariel Sharon ordina di smantellare gli insediamenti dei coloni nella Striscia di Gaza. Bergman spiega: “Il problema non erano gli insediamenti a Gaza in sé, che contavano poco, ma per gli estremisti di destra e i messianici quel passaggio fu un’epifania. Capirono che se avessero lasciato demolire le colonie una prima volta, sarebbe accaduto di nuovo in futuro: non potevano permetterlo. Fecero capire ai poteri dello stato che erano pronti a scatenare molta violenza se non fossero stati ascoltati e soddisfatti”. Negli anni Settanta i primi estremisti avevano occupato pezzetti della Cisgiordania mossi dallo stesso timore: “L’occupazione militare dei territori palestinesi sarebbe potuta cessare da un momento all’altro, bastava un ordine politico e l’esercito si sarebbe ritirato. Il ragionamento dei messianici è: ‘Se ci mettiamo a vivere qui noi che siamo risoluti a non andarcene per nessuna ragione, allora non basterà un ordine di evacuazione per far perdere a Israele questo pezzo di terra, che è un dei luoghi dove il Messia potrebbe reincarnarsi. E al Messia non deve capitare di tornare sulla terra e finire in mezzo agli arabi’”. 


Dopo aver frequentato e raccontato i servizi d’intelligence per anni, Bergman è giunto alla conclusione che sanno come difendere lo stato dai nemici esterni. Ma hanno fallito nel difendere Israele dal terrorismo ebraico


Nello stesso anno in cui Meir Kahane approda alla Knesset togliendo il sonno alla madre di Ronen Bergman, il terrorista israeliano Baruch Goldstein entra nella tomba dei Patriarchi a Hebron indossando una divisa di Tsahal, spara a casaccio contro i palestinesi inchinati in preghiera, svuota un primo caricatore del fucile, e poi un altro, e poi un altro ancora. Uccide ventinove persone e ne ferisce centoventicinque, finché non viene ammazzato di botte dai superstiti del suo massacro. L’allora primo ministro dello stato ebraico Yitzhak Rabin definisce Goldstein “una vergogna per il sionismo e un imbarazzo per il giudaismo”, Ben Gvir invece lo celebra e sarà sulla tomba di Goldstein che l’attuale ministro della Sicurezza inviterà la sua futura moglie per il loro primo appuntamento. L’anno successivo Rabin viene ucciso. Pochi giorni prima dell’assassinio politico, un ragazzo con la faccia paffuta, gli occhiali e la kippah finisce in televisione mentre mostra il simbolo della Cadillac, che aveva strappato dall’automobile del primo ministro israeliano, e dice: “Se siamo arrivati all’auto di Rabin, possiamo arrivare anche a lui!”. Così è stato – quel ragazzo paffuto che tifava la morte del leader dello stato ebraico era Ben Gvir. Negli stessi anni la destra estremista e gli ebrei messianici infiltravano i ranghi inferiori nella gerarchia degli apparati di sicurezza – così cominciava ad accadere che gli ordini impartiti dall’alto (dai vertici che appartengono alla fazione di chi crede nello stato di diritto) si perdessero mano a mano che scendevano la catena di comando. 

 

Quando un primo ministro di destra come Sharon ordinò lo smantellamento delle colonie israeliane a Gaza, Bezalel Smotrich si mise a pianificare come far saltare in aria un’autostrada israeliana per rappresaglia. “Gli impuniti” dell’inchiesta di Bergman sono Ben Gvir e Smotrich, ed è alla loro ascesa al potere che si riferisce il premio Pulitzer israeliano quando dice: “Dopo cinquant’anni in cui Israele è stato incapace di fermare la violenza e il terrorismo ebraico, i senza legge sono diventati la legge”. Gli ex simpatizzanti del terrorismo o aspiranti terroristi, che prima gli apparati di sicurezza guardavano con sospetto e cercavano di contenere, oggi sono al governo e hanno il potere di condizionare gli apparati di sicurezza.

Ronen Bergman è il giornalista a cui il più formidabile direttore del Mossad, Meir Dagan, decise di consegnare il suo testamento di informazioni. Ha pubblicato gli scoop che hanno fatto scoprire al mondo la dinamica degli omicidi mirati dei servizi segreti israeliani, compresi gli ultimi due: l’assassinio dello scienziato pasdaran padre del programma nucleare iraniano Moshen Fakhrizadeh e l’uccisione del capo di Hamas Ismail Hanyieh a Teheran. Dopo aver frequentato, studiato e raccontato i servizi d’intelligence israeliani per anni, Bergman è giunto alla conclusione che sanno come difendere lo stato ebraico dai nemici fuori dai confini. Ma hanno fallito – per ora – nel difendere Israele dal suo nemico interno.

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