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Il rito dell'odio

L'anno santo dell'antisemitismo

Andrea MInuz

Manifestazioni, marce, sit-in, “aperifada”, euforia per “l’eroica resistenza palestinese”: a un anno dal 7 ottobre l’odio per Israele e gli ebrei è diventato pop, di tendenza. Cronache dalle piazze del mondo

Il volantino che chiama a raccolta i newyorchesi per questo 7 ottobre sa già di festa: “No work, no school, all out for Gaza”. Sit-in in tutta Manhattan, a Times Square, City Hall, Columbus Circle. Bisogna “inondare la città” (“flood New York City”) con una marea euforica per questa giornata attesa con trepidazione, come un superbowl dell’intifada che strizza l’occhio al nome dell’operazione di Hamas: “Alluvione Al-Aqsa”


“Long Live October 7!”, come diceva lo striscione sfoderato da una studentessa in estasi in uno dei tanti cortei di quest’anno. L’anno santo dell’antisemitismo. Un anno di manifestazioni e marce a Londra, Berlino, New York, Parigi, Roma, Milano, città medaglie d’oro della resistenza islamica, senza dimenticare il “gas the Jews” spuntato nella spensierata Sydney. Un anno in cui ancora fatico a capire, accettare, ponderare.


Noi abbiamo giocato l’anticipo del sabato. Solito pacchetto “gita a Roma, pranzo al sacco, manifestazione ProPal”. Pullman da Milano e da Lecce, viaggi organizzati in treno, in auto, qualsiasi mezzo per sfilare nella capitale, celebrare “l’inizio della rivoluzione palestinese”, come dice la “piattaforma”, con endorsement di CasaPound, Rifondazione, e tanti pensionati deportati dalla Cgil. La galassia antagonista ha sfidato a viso aperto il Viminale e il Tar del Lazio ma è stata decimata dallo sciopero dell’Atac, ultimo faro dell’occidente. Si resta però nell’italianità in purezza: prima l’indignazione (“non si può manifestare”), poi dubbi e assilli liberali (“si può vietare un’opinione?”), poi l’ipocrisia e la doppiezza progressista (“si deve manifestare, lo dice la Costituzione Più Bella del Mondo!”), poi si va tutti in piazza a dire che non si può vietare di andare in piazza, e comunque “morte agli ebrei”. Poi scontri, tafferugli, bombe carta. Tu guarda che peccato rovinare così una bella giornata di pace.
Il maestoso anno dell’odio per Israele finisce com’era iniziato. Ci stupiamo per le manifestazioni di questi giorni ma pare abbiamo dimenticato che la solidarietà per Hamas arrivò subito.


Arrivò prima ancora della reazione israeliana, dell’avvio delle operazioni a Gaza, del tracollo umanitario. Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile scendere in strada l’8 o il 9 ottobre.  Non sto parlando di festeggiamenti in Iran o a Beirut o a Istanbul. Ma di marce, sit-in, euforia per “l’eroica resistenza palestinese” a Berlino, Londra, Toronto, nelle università, neanche ventiquattro ore dopo. Quando tutti avevamo ancora negli occhi il corpo smembrato di Shani Louk, 23 anni, buttata su un pick-up come una bambola di pezza, tra le gambe dei terroristi in festa che rientravano a Gaza strombazzando i clacson come campioni del mondo. Com’era possibile per un giovane occidentale non riconoscersi in quei suoi coetanei trucidati a sangue freddo mentre ballavano? Ferma restando la sua incrollabile fede anticapitalista, l’odio per Israele, come faceva a non cogliere almeno un po’ dell’universalità di quell’Orrore? E’ un anno che me lo chiedo.

 

                                


Il fatto è che a un anno dal 7 ottobre, il grande e unico successo di Hamas siamo noi. La confusione culturale dell’occidente, la complicità, l’impennata di antisemitismo, la palestinizzazione delle nostre piazze. Un obiettivo pianificato, cercato, centrato. Siamo noi che languiamo per Hamas e Hezbollah mentre in Siria e in Iran i giovani festeggiano l’uscita di scena di Nasrallah con dolcetti e cioccolatini (una sua perla a caso: “Per omossessuali e lesbiche la punizione deve sempre essere la morte, dobbiamo rigettare ogni loro normalizzazione, dobbiamo continuare a usare parole come ‘anormali’, ‘checche’ e altri epiteti per descrivere tutto l’orrore del loro atti”). A Roma invece il cartello “meglio froci che sionisti”. Musi lunghi da una settimana. Chef Rubio a momenti in lacrime. Perdiamo un amico.


Uno schema ormai classico: appena fatto fuori dall’esercito israeliano, Haniyeh, uno dei leader di Hamas, è diventato “l’uomo delle trattative”. Nasrallah è stato eliminato “mentre stava lavorando alla tregua”, proprio quella notte. Sono sempre i costruttori di pace che se ne vanno. E se domani, Dio non voglia, perdessimo anche Khamenei che nel sermone col fucile esorta il mondo arabo all’eliminazione di Israele dalla faccia della terra, scopriremmo un uomo mite, un altro pacifista visionario, “you may say I’m a dreamer, but I’m not the only one…”. Ma certo anche la nostra superiorità morale non porta lontano. Produce un fanatismo simmetrico e opposto, e meno efficace dell’altro. L’ingenua convinzione che il pugno di ferro e il divieto della piazza possano sradicare le idee che non ci piacciono si scontra con la realtà: come contrastiamo tutto questo? Qual è la nostra risposta? Abbiamo proposte e idee più attraenti per screditare i fiancheggiatori di un pogrom? Indignarci per l’ignobile complicità con Hamas è facile.  Ma poi?


Per molti giorni dopo il 7 ottobre non sono riuscito a combinare nulla. Penso sia successo a tanti. Non riuscivo a leggere i giornali, davanti ai tg cambiavo canale, tenevo spenta la radio, limitavo lo scrolling sul telefono. Non volevo incazzarmi. Non volevo tornare su quelle immagini – immagini che non avevano nulla a che fare con una guerra o un attentato e che non se ne sono più andate via (anche se la cosa più atroce per me sono i vocali poco prima di morire, “eccoli sono in casa, addio vi voglio bene”, come le telefonate di chi era in volo sugli aerei dell’11 settembre o intrappolato nelle Twin Towers). Poi sarebbe subentrato il panico sociale. “Ci hanno invitato a cena…”…“sì, ma chi c’è?... No per carità, quelli tirano fuori ‘l’apartheid’, ‘l’occupazione’, non ce la faccio, finiamo a litigare”. Succede ormai sempre così. Sempre più spesso, quasi con tutto. Ma in nessun campo come il medio oriente e il conflitto arabo-israeliano esiste una così grande sproporzione tra eccitazione e ignoranza, tra sbrodolata di slogan e conoscenza anche minima della storia e della geografia. E di sicuro eccita proprio per questo.


Ricordo la surrealtà televisiva di quel giorno. Da ore arrivavano le notizie e le immagini sul telefono. Accendevo la tv: sulla Rai c’erano Alberto Angela che raccontava i mulini a vento olandesi, una gara di ciclismo e la Cgil in piazza che festeggiava questa “bellissima giornata contro l’autonomia differenziata”. Poi una soap su Canale 5, poi il nulla. Solo Rete4, la nostra Fox, copriva le prime notizie. Il giorno dopo, anche a Roma subito i segnali di solidarietà, i primi sit-in. Le prime scritte sui muri, “morte agli ebrei”, “viva Hamas”, incorniciate tra le svastiche (la più bella però pochi giorni fa, nella striscia di Torpignattara, “GAZZA libera”, perché l’indignazzione è troppa). 

 

                           


Abitando all’Esquilino, quartiere multietnico e anticolonialista, mi sarei ritrovato nel cuore di tutte le manifestazioni ProPal, quasi ogni sabato, in una città già paralizzata dai mille cantieri per il Giubileo. Potrei sbagliarmi ma non ho mai sentito la parola “pace” uscire fuori dai megafoni. Dopo le prime settimane la manifestazione per la Palestina era già un rito. Un format. Una cosa che andava fatta perché andava fatta. Tutti insieme a piazza Vittorio verso le 17. Un po’ di “morte agli ebrei” e “via i sionisti da Roma”. Poi “aperifada”, spritz con “presidio del territorio”, contro tutte le oppressioni coloniali. Bandieroni palestinesi ovunque, dipinti sulle strisce pedonali, sventolati alle finestre, sfoderati su Instagram, poi sostituiti da quelli del Libano. Un amico mi mostrava la sua chat di classe genitori-docenti con l’invito a partecipare “tutti insieme” al corteo. I genitori discutevano della possibile presa di posizione della scuola elementare, che in quanto scuola elementare forse non dovrebbe avere il medio oriente tra le sue prime preoccupazioni (raccontava Golda Meir a Oriana Fallaci: “Nelle scuole di Gaza abbiamo trovato libri di aritmetica che ponevano problemi del genere: ‘Hai cinque israeliani, Ne ammazzi tre. Quanti israeliani ti restano?’”). Ci voleva uno striscione sulla facciata che esprimesse lo sdegno collettivo. Ma cosa scriverci? I più moderati proponevano un annacquato “pace in medio oriente”, ma non scaldava i cuori. Molti chiedevano il più instagrammabile “Free Palestine”. Altri un risoluto “basta con l’occupazione della Striscia”. L’ipotesi di una grande anguria gigante disegnata all’ingresso, che a Roma si chiama “cocomero”, fu bocciata perché troppo criptica. Parecchi “via gli israeliani dalla Palestina”. Alla fine non se ne fece nulla.

 

Il fatto è che dal 7 ottobre il più classico antisemitismo che accompagna la storia degli ebrei dalla notte dei tempi si è trasformato in qualcosa di nuovo. Tanto per cominciare non sembra più così riprovevole. E’ diventato pop, di tendenza, glamour. Fa sentire dalla parte giusta. Accende i riflettori. Fa brillare nel maestoso discorso dell’Impegno: libri, conferenze, film, performance, premi, appelli umanitari, al cui fondo c’è sempre una trasformazione del terrorista di Hamas o Hezbollah in “eroe culturale”. Un antisemitismo non più inaccettabile e vergognoso, ma sentimento “complesso” e che se ben “contestualizzato” può essere condiviso anche a tavola, tra persone educate, sensibili e naturalmente progressiste. Dopo la doverosa premessa, “non sono antisemita ma antisionista”, si squadernerà il catalogo di “apartheid”, “Netanyahu criminale di guerra”, “Gaza prigione a cielo aperto”, “75 anni di occupazione coloniale”, “stop al genocidio” e al televoto.

Il vecchio stereotipo dell’ebreo vittima è rovesciato nel suo opposto. Un ebreo carnefice, nazista, colonialista, assetato del sangue dei bambini di Gaza. Vittima e carnefice sono due modi speculari di azzerare la concretezza umana degli ebrei (cui volendo si può aggiunge lo stereotipo home-made dell’“ebreo invincibile guerriero” sfoderato da Netanyahu all’Onu, al momento con qualche ragione dalla sua). Un antisemitismo non più legato a nicchie di odiatori seriali e repressi, alle gesta folkloristiche di qualche feccia nazista da stadio. Le bandiere di Hezbollah che sventolano a Roma e Milano, il “minuto di silenzio” per Hassan Nasrallah, guida spirituale, amico, fratello, “aiutante di deboli e disabili” sono ormai parte del paesaggio. Un repertorio già classico alle spalle e un pantheon di professionisti dell’antisemitismo: volenterosi strappatori di volantini degli ostaggi, professori di Columbia sdilinquiti per la strage “awesome” e “outstanding” di Hamas, come un film da Oscar, miglior pogrom dal 1945, la giovane leader dell’occupazione del campus che reclama “aiuti umanitari di base”, “l’obbligo di garantire cibo e acqua”, in una metaparodia della protesta, un momento davvero molto Monty Python, superato però dall’Iran messo a capo dei diritti umani all’Onu. Lo choc per il 7 ottobre è durato niente. Poi tutto  un happening molto fusion di antagonisti, pacifisti, fasciosfera, attori, registi, scrittori militanti, “rapper per Gaza”, nuovi leninisti e “professoresse democratiche”, chi sfilando sul red carpet, chi dormendo in tenda all’università, promuovendo tutto un pulviscolo di nicchie “a tema”: antropolog* per la Palestina, transgender contro “!srae l*”, “veganesimo intersezionale in Palestina”, “Animal Rights Activists for a free Palestine”, “fatties for a Free Palestine”, creati dopo aver scoperto una macchinazione ai loro danni (“mancano indumenti di protesta oversize”), o gli acrobatici “queers for Gaza”, città dove, assicura la filosofa Judith Butler, c’è un notevole movimento Lgbtq+, chissà, forse nei tunnel. Poi il vasto campo del boicottaggio. La battaglia contro i datteri “frutto dell’apartheid”, la sospensione degli accordi con le università, le liste di proscrizione: Puma “complice di apartheid”, Carrefour “facilitatore di genocidio”, un cavo sottomarino della Siemens che “collega le colonie illegali israeliane all’Europa”, Marvel col prossimo “Capitan America” che “personifica l’Israele dell’apartheid”, Airbnb, Expedia, Booking che “offrono affitti in case costruite su terra palestinese rubata”, ed è subito overcolonization. 


Bisogna riconoscere un certo scatenamento della fantasia. Bisogna dare atto di un universo narrativo epico e potente, come nelle grandi saghe fantasy, la Morte Nera Sionista contro i “ribelli della resistenza”, Hamas, Hezbollah, i pasdaran, che allestiscono per noi un futuro di jihad e libertà. Ci vorrebbe un Tom Wolfe per riscrivere “Radical chic” coi capi di Hamas al posto delle Black Panthers. Una cena in piedi con gli houthi in un grande appartamento di Upper East Side, tra vassoi di fingerfood libanese e selfie col mitra. Scriveva Tom Wolfe: “A lungo andare gli storici considereranno tutta l’esperienza della Nuova Sinistra non tanto come un episodio politico quanto come un fenomeno religioso mimetizzato da equipaggiamento semimilitare e discorsi da guerriglia”.  Corsi, ricorsi, eterni ritorni. 


 Gli “Area” dedicavano una canzone a “Settembre nero”, l’organizzazione armata palestinese che ha avuto il suo exploit alle Olimpiadi del ‘72. Arafat era un nuovo Che Guevara. Divenne poi anche l’unico premio Nobel per la Pace a girare sempre armato con la pistola nella fondina (godendo adesso di arioso “lungomare Arafat” a Palermo, inaugurato da un commosso Leoluca Orlando qualche anno fa). Ma a un anno dagli attentati di Monaco avremmo faticato a immaginare manifestazioni e sit-in in tutto il mondo per celebrare i terroristi. Avremmo faticato ad accettare la glorificazione di un massacro. Se lo scopo di una manifestazione è “mandare un messaggio”, il messaggio di questi giorni è chiaro: celebrare la strage di Hamas. Rivendicare la morte di trecentosessantaquattro ragazzi provenienti da tutto il mondo trucidati mentre ballavano a un Festival di musica elettronica in un trip di pace, amore e techno. Esaltare il massacro dei kibbutz Be’eri o Kfar Aza, cose che non avevo mai visto neanche nei film più efferati sui crimini nazisti. Non ci sono sfumature. Non siamo ai “compagni che sbagliano” ma all’esaltazione dello stupro, delle mutilazioni, di ragazze insanguinate caricate sui pick-up e date in pasto a una folla in delirio, di genitori ammazzati davanti ai bambini e di bambini uccisi a sangue freddo nelle loro camerette (“Glory to our martyrs” proiettato di notte sulle facciate della Georgetown University a Washington, il 24 ottobre, una di quelle scene che archiviai subito come “fake”, ma ero ingenuo, altro che “fake”, non avevamo visto ancora nulla). 


Hamas sapeva che nell’opinione pubblica occidentale la causa di questa guerra sarebbe presto scemata, rimossa, dimenticata, lasciando sotto i riflettori solo le operazioni militari di Israele, le macerie di Gaza, lo strazio per le vittime civili, purché di matrice israeliana. Come i missili e i razzi: si vedono solo quando vanno da Israele in Libano, mai nella traiettoria opposta. Però neanche Hamas immaginava la facilità e la rapidità con cui si è messa in moto la macchina antisraeliana. Gridare al megafono “morte a Israele” il giorno in cui 1.200 ebrei sono stati massacrati e altri 251 rapiti e ficcati nei tunnel di Gaza è come andare a piazza del Popolo l’11 settembre con le bandiere di Al Qaeda, o il 27 gennaio vestiti da SS, ballando sui carri con trombette e DJ set, “from the river to the Reich”, ma non diamo troppe idee, per carità. Ma neanche l’abiezione perde il senso dell’assurdo: pochi giorni fa al Salone del Gusto di Torino irruzione dei ProPal per protestare contro Israele tra gli stand della manifestazione: “Il progetto culturale sionista”, spiegavano gli organizzatori, “ha creato una cultura a tavolino presentando humus e falafel come ricette tradizionali israeliane”. Quando non li fanno morire di fame, gli fregano le ricette. Maledetto gastrosionismo.

Come già con l’orrenda prosa ministerial-leninista delle Br, anche l’antisionismo di piazza pone un tema linguistico. C’è di tutto: dalla più classica versificazione postmarxista (“fare della solidarietà internazionalista un’arma per rovesciare i complici e gli alleati dei sionisti”) allo scintillante lessico della “social justice” (“creare un terreno di lotte intersezionali per la liberazione umana e animale, dall’oppressione colonialista, dalla violenza sionista e dalla devastazione ambientale”). Fate caso al modo compiaciuto con cui dicono “entità sionista”, “agente sionista”. Come in una versione jihadista dei vecchi “Urania” o del multiverso Marvel con le sue “entità cosmiche” che “esistono sin dagli albori dell’universo stesso” (ed è subito “Protocollo dei Savi di Sion”). Penso che si sovrastimi il peso dell’ideologia, perché qui prima di tutto è saltato in aria il linguaggio. Le parole non dicono più nulla. Se chiamiamo “negazionista” chi non è d’accordo con noi, se dire a una donna “guidi molto bene” è una “microaggressione”, se nei premi letterari si invoca la “meritocrazia”, allora va bene anche il ritornello sul “genocidio”. Va bene la sua presa immediata sui cuori e le menti umanitarie, ci vuole un parolone per far risuonare meglio la ripulsa morale. E lasciando stare che sarebbe anche l’unico “annientamento pianificato” di un popolo che da anni mantiene uno dei più alti tassi di crescita demografica al mondo, e quindi un genocidio quantomeno disfunzionale, c’è in questo slittamento del termine da oggetto del diritto internazionale a categoria psichica un ovvio uso tattico: ribaltare in una parola sola Gaza in Auschwitz. I vecchi oppressi in sadici oppressori. Gli eredi della Shoah nei nuovi artefici del “Male assoluto”


E’ invece sicuro che i massacri del 7 ottobre non sono riconducibili a nessuna guerra di liberazione o alla logica classica degli attentati, ma a un rito religioso: la purificazione della terra dagli ebrei. Un format millenario. Le modalità di quel pogrom, il modo in cui è state filmato e celebrato, la folla in estasi tra i cadaveri mutilati, tutto è riconducibile non alla guerra ma alla catarsi e agli atti di purificazione religiosa. E’ persino inutile ricordare che con tutti i soldi ricevuti dalla comunità internazionale in questi anni, Gaza sarebbe dovuta essere più ricca di Dubai, e con una metropolitana più grande di quella di Londra al posto di quei cinquecento chilometri di tunnel da usare per gli attentati. Oppure che l’azione di Hamas è arrivata nel mezzo di un accordo ormai a buon punto tra Israele e Arabia Saudita (o che l’11 settembre 2001 era l’anniversario degli accordi di Camp David). Non serve nemmeno rievocare qui la lunga storia di trattative e negoziati fatti saltare dal mondo arabo, perché lo scopo non è mai la liberazione della Palestina o la pace ma la distruzione di Israele. Non c’era calcolo politico nel 7 ottobre, se non quello di scalare posizioni nella hit-parade del jihad internazionale, scaldare i cuori degli odiatori di Israele, ricordare al mondo che volendo, con qualche sforzo in più, si potrebbe cancellare per sempre Israele dalla cartina geografica. Hamas sapeva quale sarebbe stata la reazione scontata di Israele, ma del destino del popolo palestinese, parafulmine per il jihad e ricatto per l’occidente, non gliene frega nulla. Anche Hitler, a guerra ormai persa, non si preoccupava com’è noto dei bombardamenti sulla Germania. Si concentrava solo sulla endsolung del problema ebraico. Purificare l’Europa dagli ebrei era più importante che limitare i danni, salvare il paese, i civili. Ma a differenza dei nazisti che provarono a tenere tutto segreto e a cancellare le prove dello sterminio, Hamas si mette in mostra, sotto i riflettori, agli occhi del mondo intero, confida nell’applauso. Un pogrom in mondovisione.


Per cui uno vorrebbe anche respingere i toni da Far West, la logica buoni e cattivi, il Bene e il Male, alzare magari il sopracciglio quando Netanyahu entra all’Onu come John Wayne in un saloon. Vorrebbe rifiutare la polarizzazione da social, per chi tifi, pro questo, anti quell’altro, come un derby, due popoli, “due stadi”. Ma proprio non si può restare sempre equidistanti. E’ vero, come dice Amos Oz, che il nemico del presente è il fanatismo, figura universale imbestialita anche da vent’anni di risse sui social. Ma è anche insopportabile la complicità culturale, l’ammiccamento, la giustificazione, il relativismo di chi mette sullo stesso piano i morti dei bombardamenti e le scatole di chiodi conficcate da Hamas nelle vagine delle ragazze israeliane prima di sparargli in testa. Il vantaggio di avere due guerre in contemporanea sui social è che si può toccare con mano la sproporzione: ripulsa collettiva per le azioni di guerra israeliane e scarso interesse per le bombe di Putin su un ospedale pediatrico


I nostri distinguo, le lacrime umanitarie e tutta l’ipocrisia occidentale si scontrano con Mia Schem, ventunenne rapita al Festival Supernova, liberata due mesi dopo, che davanti alle telecamere dice: “Non ci sono civili innocenti a Gaza, nemmeno uno”. Una frase che mi risuona ancora in testa. Una frase difficile da accettare. Una frase che “farà discutere” avevano scritto i giornali, e che invece è proprio morta lì, perché è complicata, scivolosa, meglio non approfondire troppo, la ragazza sarà stata sotto choc, poveretta. Una frase che qualche problema lo pone. Perché in una società completamente militarizzata, soggiogata da Hamas, votata alla distruzione di Israele, coi bambini che alle recite mettono in scena lo sgozzamento degli ebrei, e giornalisti di Al Jazeera col doppio lavoro, inviati di guerra e comandanti di Hamas, il concetto di “civile innocente” un pochino si adombra.

Quattromila docenti universitari che firmano un appello per interrompere ogni forma di collaborazione con gli atenei israeliani non sono tutto il mondo accademico, ma sono tanti. I rettori che quest’anno hanno ceduto ai collettivi pongono anche qui, dopo la bancarotta di Harvard, un problema di imbarazzo (ma su Harvard avevamo già qualche dubbio quando invitarono Di Maio). Ha ragione Pierluigi Battista, “i nemici di Israele non sono mai amici della libertà” (leggetevi “La nuova caccia all’ebreo”). E nel Grande Romanzo Illiberale in cui sguazza dal liceo al dottorato lo Studente Collettivo la storia si srotola tra oppressori e oppressi, il colonialismo è solo atrocità, il nostro mondo è irredimibile e va punito dalla triplice intesa: antiamericanismo, antisionismo, anticapitalismo. Le complicate vicende dell’umanità sono un elenco di barricate e rivoluzioni mancate o fallite, oppure trionfanti ma poi applicate male perché “non erano vere rivoluzioni”. Non c’è spazio per una cultura antitotalitaria. Figuriamoci cosa frega a questi dell’“unica democrazia del medio oriente”. Anche la geografia se la passa male. Battista cita un sondaggio in cui si chiedeva agli studenti quali fossero il mare e il fiume del fatidico ritornello delle piazze, “from the river to the sea”. Non lo sa quasi nessuno (“Dal Nilo al Caspio”, “Dall’Eufrate al Mar Rosso” e un magnifico, “Dal fiume Alcantara al Mar Mediterraneo”). Alla Sapienza, il collettivo di Lettere se l’è presa col Dipartimento di Scienze dell’Antichità perché supporta la “prassi archeologica sionista da quando nel 1967 fu scavato il primo tunnel a Gerusalemme Est”. Scavi archeologici ovviamente illegali, “metodologicamente errati” e che “causano danni strutturali a edifici pubblici e privati della popolazione palestinese”. E io trovo davvero magnifico riuscire a scrivere tutto questo dopo aver visto i cinquecento chilometri di tunnel di Hamas, che a questo punto presumo siano “a norma”, con benedizione delle sovrintendenze. 


Ho conservato la mail del collega dell’università che chiedeva una firma per portare in senato accademico la mozione di “sospensione di ogni accordo con università e istituti di ricerca israeliani” (respinte grazie al cielo dalla rettrice). Finiva così: “Trattasi di una misura di buon senso sulla quale spero si potrà realizzare un’ampia convergenza all’interno della comunità”. E l’atrocità, la banalità, il conformismo della sua malafede, sta tutto in quel “buon senso”


Però un giorno sono passato tra le tende ProPal della Sapienza, nel camping dei “collettivi” che giorno e notte rivivono le tensioni della “Striscia” nel “pratone dell’Università”. Era mattina. I ProPal si svegliavano. C’era una ragazza accampata che si lamentava con l’amica, “so’ tre settimane che tutte le sere questo me racconta ‘a storia daa Palestina, teggiuro… nun ne posso più!”. Chissà se le avrà almeno spiegato qual è il fiume, qual è il mare.