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Shai Davidai ci racconta il suo anno “complicato” da prof. ebreo della Columbia

Simona Siri

"Immaginiamo un attacco come il 7 ottobre ma contro rifugiati siriani in Europa. Nessuno avrebbe permesso che la gente nelle strade di New York, Roma o Londra lo celebrasse. Vedere che al mondo andava bene questo odio contro Israele e contro gli ebrei per me è stato davvero scioccante", dice il professore della Business School della Columbia

Non erano neanche trascorse due settimane dall’attacco di Hamas che le università americane erano già piene di manifestazioni in cui si inneggiava alla distruzione di Israele e a una Palestina “dal fiume al mare”. Quel 18 ottobre 2023 Shai Davidai – professore presso la Business School della Columbia University – improvvisò un comizio nel campus, con un discorso in cui criticava la direttrice dell’università (Minouche Shafik, che poi si è dimessa) per aver consentito l’ingresso a “organizzazioni studentesche pro terrorismo”, esprimendo preoccupazione per la sicurezza degli studenti e chiedendosi come queste manifestazioni potessero aver luogo in una città che aveva subìto gli attacchi dell’11 settembre, tracciando parallelismi con il divieto di manifestazioni del Kkk o pro Stato islamico. “Ho una figlia di due anni”, urlava nel video, “che per loro è un target legittimo in nome della resistenza (il riferimento è a Kfir e Ariel Bibas, rispettivamente di 9 mesi e 3 anni quando sono stati rapiti da Hamas, ndr) e nessuno dei presidi delle università americane è in grado di prendere posizione. Codardi!”. Da allora quel video è stato visto milioni di volte e ha cambiato la vita di Davidai, da professore semisconosciuto a uno degli attivisti più noti, intervistato da giornali e televisioni e autore di “Here I Am With Shai Davidai”, definito come un podcast ebreo sui diritti civili. 

 

Non credo ci sia niente di speciale in me – dice al Foglio il professore – Se non avessi parlato io, qualcun altro lo avrebbe fatto.  Ho semplicemente detto quello che avevo dentro: dolore. Non come ebreo, non come israeliano o americano, non come professore, ma come padre. Non ho fatto un’analisi storica, non ho fatto una diatriba filosofica, né ho proposto un piano per la pace. Ho parlato ai genitori, nella convinzione che non importa se sono ebrei o cristiani o musulmani: tutti vogliamo proteggere i nostri figli”. Da quel discorso poi le proteste nei campus americani sono aumentate. “Immaginiamo un attacco come il 7 ottobre ma contro rifugiati siriani in Europa. Nessuno avrebbe permesso che la gente nelle strade di New York, Roma o Londra lo celebrasse. Sarebbe stato inaccettabile. La polizia, il sindaco, il governatore lo avrebbero fermato. Vedere che al mondo andava bene questo odio contro Israele e contro gli ebrei per me è stato davvero scioccante”.

 

Resta che gli studenti hanno il diritto di esprimere solidarietà ai palestinesi. “Al 100 per cento – dice Davidai – e all’inizio ho anche cercato un modo di farlo insieme. Sono andato dai gruppi pro Palestina proponendo di dare inizio a un nuovo movimento, israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani: io sarei salito sul palco a dire che i palestinesi hanno il diritto all’autodeterminazione e un palestinese sarebbe salito sul palco a dire che Israele ha il diritto di esistere. Ho ricevuto solo no”. Il professore spiega che “uno dei leader della protesta ha detto che non poteva dirlo perché non ci crede. Quando dicono: ‘Non vogliamo due stati, vogliamo tutto’, lo pensano davvero. Non è uno slogan. Non vogliono nessuno stato israeliano. Quando dicono Israele, lo mettono tra virgolette”. 

 

Non tutti quelli che urlano “dal fiume al mare” vogliono davvero la distruzione di Israele, continua Davidai, “come non tutti i centinaia di migliaia che urlavano ‘Heil Hitler’ erano nazisti. La pressione sociale c’è. E infatti non ce l’ho con gli studenti, ma con i leader delle istituzioni. Gli stanno facendo il lavaggio del cervello e li stanno usando per creare più violenza nel mondo”. Oggi nei campus americani sembra tutto più tranquillo, ma Davidai sostiene che sia perché è la stampa a non occuparsene più: “Venerdì scorso c’è stata una protesta a sostegno di Hezbollah, con gli stessi slogan che conosciamo. Mercoledì c’è stato un sit in biblioteca. Nell’ultimo mese ci sono stati cinque attacchi antisemiti nei campus americani. Durante la cena di Rosh Hashanah, in una università del Michigan, una persona è entrata con una pistola e ha minacciato gli studenti ebrei. I media sono desensibilizzati: ‘Morte a Israele’ o ‘niente sionisti nel campus’ non fanno più notizia. Ci vuole qualcosa di più estremo: aspettano il morto”. 

 

Eliminare l’antisemitismo, così come eliminare il razzismo dai campus è una utopia, ma cosa dovrebbero fare le università? “L’odio non si può eliminare, è vero, ma si può farlo diventare qualcosa di socialmente inaccettabile, qualcosa di cui vergognarsi, come è successo con il razzismo. Cinquanta anni fa c’era razzismo nei campus, ai professori era permesso insegnare cose razziste, la società lo tollerava. Poi tutto è cambiato. Oggi chi esprime idee razziste può farlo per la libertà di parola, certo, ma non trova lavoro, è ostracizzato. Ci vuole la stessa cosa per l’antisemitismo e per ogni forma d’odio”.  Quest’ultimo anno per il professore è stato “complicato”, dice, “i colleghi mi ignorano e gran parte della mia ricerca è stata interrotta perché gli studenti di dottorato hanno smesso di lavorare con me. E’ il prezzo personale e professionale che pago per essermi esposto, ma va bene così, alla fine lo rifarei perché è ciò che doveva essere fatto”. Per Davidai poi il 7 ottobre è stato uno choc, ma “l’8 ottobre mi ha devastato. Ciò che molti di noi si aspettavano dopo l’attacco di Hamas era di avere un po’ di tempo per sederci con noi stessi e, come animali, leccarci le ferite. Avere un momento in cui il mondo distingueva tra il bene e il male, per lasciare alle vittime il tempo per capire che cosa fosse successo. Invece il mondo ha iniziato dall’8 ottobre ad andare prima contro Israele e poi contro tutti gli ebrei. Senza contare che quello è stato solo l’inizio, poi sono venuti il 9, il 10, l’11 ottobre: essere ebrei è diventato sempre più difficile. Il senso di abbandono è stato totale: vedere che chi aveva a cuore i diritti delle donne e degli omosessuali, chi si preoccupava per l’ambiente all’improvviso aveva solo un gruppo, gli ebrei, di cui non gli importava, è stato devastante”.